Alex Polidori: “Da piccolo facevo da spalla a Nino Frassica. Oggi sono la voce di Spider-Man e Timothée Chalamet”
Alex Polidori a TvBlog: “Cominciai come cantante nel coro di mio padre. A Frassica devo molto. Mike Bongiorno lo incrociavo quasi esclusivamente sul palco, ma fu sempre carino. Nel doppiaggio tutto iniziò per gioco. Do la voce a Tom Holland e Timothée Chalamet, è una grande soddisfazione”
Un baby prodigio. Uno di quelli con la faccia giusta e la capacità di reggere il peso dell’emozione. Senza tralasciare il necessario ed innegabile talento, che rese Alex Polidori uno dei bambini più popolari di inizio anni duemila.
Se oggi è uno dei doppiatori più amati e quotati, vent’anni fa ad Alex la notorietà gliela regalarono i riflettori della tv, grazie alla fiction e all’irresistibile ruolo di spalla al fianco di Nino Frassica e Mike Bongiorno.
“In realtà cominciai come cantante nel coro di mio padre Silvano”, rivela Polidori a TvBlog. “Con i Mini-Singers partecipai a tante trasmissioni. Già a tre anni apparvi all’interno di Uno Mattina. Eseguimmo un repertorio di canzoni contro la guerra e per la pace nel mondo, anche se in realtà la primissima volta fu in culla, ad appena sei mesi, nello spot delle piastrine Vape contro le zanzare”.
L’aria dello spettacolo ha influenzato Polidori fin dal principio. “Se sono nato è per merito della canzone Il coccodrillo come fa?, dato che uno dei due piccoli interpreti era il mio fratellastro Gabriele Patriarca. Mio padre era selezionatore dello Zecchino d’Oro nel Lazio e si appassionò a questo bambino. Ne intravide le qualità e lo portò a Bologna. Conobbe la sua mamma, si innamorarono e pochi anni dopo nacqui io”.
E pure nel magico incontro con Frassica lo zampino indiretto di Gabriele risultò determinante. “Recitò nella serie di Spqr, dove c’era proprio Nino che fece amicizia con i miei genitori. Un giorno comunicò a mia madre che gli sarebbe servito un bambino per mettere in piedi degli sketch e chiese se fossi spigliato. Lei lo informò che avevo una bella parlantina e da lì partì tutto”.
Sei stato la sua spalla per parecchi anni.
Sì. Quando nel 2003 arrivai a Sanremo nei panni del sindaco di Scasazza ero un veterano (ride, ndr). La prima volta che mi coinvolse fu in una puntata di Domenica In del 2000 con Amadeus. Frassica doveva presentare la nuova stagione di Don Matteo e mi portò con sé per un siparietto. La mia vera iniziazione alla televisione è stata con la fiction, ma Nino è la persona a cui devo di più. Ho fatto mille cose assieme a lui, compresa una conduzione dello Zecchino.
Arrivasti all’Ariston all’età di otto anni. Un contesto che mette i brividi al solo pensiero.
Da parte mia c’era molta ingenuità. Sapevo che era un evento importante, ma non mi spaventava. Nei filmati si può notare come io sorridessi. Ero più che altro stupito del fatto che la gente si divertisse. Un po’ di tensione mi salì la prima sera, perché in quel periodo mi era venuta una tosse fortissima che non mi era andata via. Temevo di tossire in diretta e mi fecero visitare dal medico dell’Ariston. Per fortuna non accadde nulla, tutto andò liscio. Feci diverse apparizioni, diventai un po’ la mascotte degli artisti in gara.
Come ti preparasti?
Provai tantissimo con mia madre a casa a Roma. Nino la istruì: avrei dovuto imparare il discorso del sindaco a memoria e quando mi avrebbe toccato sarei dovuto ripartire dal principio, immediatamente, come un disco rotto. Se andassi a Sanremo ora mi tremerebbero le gambe, all’epoca invece non mi rendevo conto. Ero spensierato, però avevo anche il senso dello spettacolo. Con Frassica era tutto collaudato alla perfezione. E’ uno che si prepara, ma poi ti cambia improvvisamente le carte in tavola. Forse il fatto di essermi sempre confrontato con persone più grandi, fin da piccolissimo, mi ha aiutato.
Da spalla di Frassica alle gag con Mike Bongiorno a Bravo Bravissimo. Due caratteri agli antipodi.
Mike era molto serio, però non burbero. Aveva un approccio diverso, vero, ma fu sempre carinissimo con me. Non l’ho frequentato molto, ci incrociavamo quasi esclusivamente sul palco. Dietro le quinte scambiavamo pochissime parole. Era impressionato dai miei capelli nerissimi come la pece, questa frase ce l’ho impressa nella mente, me la ripeteva spesso. Nella maggior parte dei casi provavo con un assistente, non direttamente con lui. Al momento delle registrazione sapevo già cosa avrebbe dovuto dirmi e viceversa, c’era uno schema studiato. Entravo in scena e dovevo disturbarlo, magari raccontando delle barzellette. Pure qui mia madre svolse un ruolo fondamentale nella ricerca e nella selezione delle storielle. Mi ha supportato tantissimo e si è scoperta anche un po’ autrice.
Parallelamente, dicevamo, c’erano state parecchie fiction.
L’esordio fu con Il bello delle donne, dove rimasi per tre stagioni. Poi fu la volta di Cuccioli, Papa Giovanni, Ricomincio da me assieme a Barbara D’Urso, Orgoglio – capitolo terzo, Fiore e Tinelli su Disney Channel e Orgoglio Criminale, dove ricoprii il mio ultimo ruolo.
Suppongo che l’età fu determinante.
Esatto. Quando si cresce e si cambia a livello estetico non sanno più come collocarti, vai bene fino ai 12 anni. Lo snodo nell’adolescenza ci fu con la serie Fiore e Tinelli, mentre in Caldo Criminale interpretavo un ragazzo rom che rubava le auto. Non ero né abbastanza piccolo, né troppo grande. Sul fronte recitativo è stato un momento particolare.
Una metamorfosi che archiviò anche il sodalizio con Frassica.
Mi coinvolse nuovamente quando ormai avevo 17 anni, gli serviva un nipote per un’ospitata a I migliori anni. Tuttavia, quel gioco di ruoli si era esaurito. Sono rimasto in buoni rapporti con lui, ci sentiamo spesso. Se ci fosse l’occasione, rifarei volentieri qualcosa in tv, ma non sto lavorando in tal senso. Mi sto concentrando su altre cose.
Ti riferisci al doppiaggio. Quando hai mosso i primi passi?
Attorno ai cinque anni, per gioco. Realizzai delle battute di bambini, ma il primo vero impegno fu ridoppiare me stesso ne Il bello delle donne nelle scene in cui si erano verificati alcuni problemi di audio in presa diretta. Da bambino impari facilmente, sei una spugna e apprendi subito. Ho imparato sul campo. Considera inoltre che il mio primo direttore di doppiaggio è stato Rodolfo Bianchi, un maestro. Notò che ero abbastanza ricettivo e mi richiamò. C’è sempre bisogno di bambini, dal momento che non ce ne sono molti. Quando ti trovano, ti contattano per qualsiasi cosa. Lavorai moltissimo.
Non tutti sanno che sei stato la voce di Nemo.
Accadde proprio nell’anno di Sanremo. Fu una stagione prolifica e resta il film d’animazione più importante a cui ho partecipato. Ancora adesso mi chiedono di rifare la voce, ma non posso perché non è più la stessa.
L’età dello sviluppo condizionò anche il tuo impegno nel doppiaggio?
A 12-13 anni ci fu il cambiamento e non andavo più bene per nessun ruolo. Ebbi un momento di down e maturò la mia passione per la musica su cui tutt’oggi investo molto del mio tempo.
Attualmente sei la versione italiana di Timothée Chalamet e Tom Holland. Un’investitura di non poco conto.
Sono belle soddisfazioni, hanno la mia età e li reputo tra gli attori più forti della mia generazione. Chalamet lo doppiai per la prima volta nella serie Homeland, ma scoprii solo in seguito che era lui. Chiamami col tuo nome fu la prima esperienza davvero importante. Da quel momento gli ho prestato la voce quasi sempre. Nel caso di Holland, invece, esordii in Heart of the sea, le origini di Moby Dick, fino ad arrivare a tutti i suoi Spider-Man.
I film d’animazione li hai mollati?
No, di recente ho lavorato in Wish, però ne faccio meno, un po’ per scelta. Devo preservare la voce e nei cartoni si spinge tanto da quel punto di vista. Può capitare che mi vada via.
Come ti comporti per evitarlo?
Ci sono degli accorgimenti, dagli infusi agli spray, passando per il miele. Il miglior rimedio resta il silenzio. Il sonno è il miglior amico per il ritorno della voce.
Non vai allo stadio, immagino.
Ci vado, ci vado. Sono abbonato all’Olimpico. Diciamo che quando il giorno dopo ho dei turni esulto in silenzio.
In quanto doppiatore conosci quasi sempre i finali dei film. Non te ne godi nemmeno uno.
Assolutamente no, specialmente se mi affidano il personaggio principale. Il film lo riguardo soprattutto per analizzare il lavoro. Nella prima visione di Wonka sono stato attento a riascoltarmi, la seconda volta me lo sono goduto di più, ma già sapevo cosa sarebbe successo. Fa parte del gioco, mi rifaccio con tutti quelli che non doppio. Ma accade pure di scoprire al cinema delle immagini che in sala erano state oscurate.
A proposito di oscuramenti, voi doppiatori siete obbligati a lavorare osservando immagini sfocate e ‘blurate’.
Accade con le grosse produzioni ed è un accorgimento contro la pirateria. Nell’epoca degli smartphone è tosta. Sarebbe facilissimo spoilerare trame e finali sui social. Motivo per cui ci forniscono filmati pieni di scritte e banner. A volte riusciamo a vedere a malapena la bocca del nostro personaggio. E’ tutto più complicato, ci rende la vita più difficile, ma è inevitabile. Abbiamo imparato a fare anche questo. In genere, prima del lavoro finale ci forniscono parti più visibili, o scene provvisorie prive degli effetti speciali. Succede di vedere gli attori nello studio in green screen, attaccati a dei fili. A volte è persino divertente.
Un altro nemico sono i tempi, sempre più stretti.
I ritmi sono abbastanza veloci. Quando ero piccolo i film uscivano a distanza di sei mesi o un anno. Ora si è ristretto tutto, doppiamo sempre più a ridosso dell’approdo al cinema. Molte volte ci chiamano un mese e mezzo prima. Nel 2024 la situazione dovrebbe migliorare, grazie allo sciopero e alle proteste siamo riusciti ad ottenere il rinnovo del contratto nazionale con degli adeguamenti ai nuovi ritmi. Riusciremo a respirare e a lavorare con più calma. Rifacendo più volte una scena aumenta automaticamente la qualità e più manteniamo alta la qualità meno rischiamo di essere soppiantati dall’intelligenza artificiale. Se il nostro lavoro diventa piatto, privo della cura delle sfumature, c’è il pericolo di finire al pari o ad un livello inferiore delle voci artificiali.
Rispetto a una volta, nelle sale di doppiaggio siete sempre più soli.
La tecnologia ci aiuta a separare le tracce, tanti anni fa non si poteva. E’ una pratica iniziata da tempo, ma con la pandemia è diventata una scelta obbligata. Ultimamente sta tornando la moda del turno a due. Quando sei da solo è più complicato immedesimarsi e se sei il primo ad incidere non hai nemmeno l’altra voce registrata a supporto.
Il vostro lavoro è avversato da chi predilige i film in lingua originale.
Sono il primo ad ammettere che il doppiaggio sia una forzatura, così come i sottotitoli. L’originale non è mai replicabile, il nostro è un riadattamento. Per fortuna si può scegliere, chi si vuole godere un film in inglese può farlo. Io stesso se ne avessi la possibilità guarderei i film in versione originale. Non lo faccio perché mi è più comodo non farlo.
Percepisci questa ostilità?
Certo, ma senza il doppiaggio non sarebbero esistite scene iconiche impresse nella nostra cultura. Ad ogni modo, questa avversione è calata da quando si è sviluppata un’attenzione mediatica verso il nostro lavoro. La polemica adesso si è spostata altrove.
Ovvero?
Il pubblico non gradisce la pratica dei talent, cioè il coinvolgimento di cantanti o sportivi. Sono mosse di marketing che regalano pubblicità ai film, ma al contempo provocano tanti commenti negativi. Se vedi un prodotto dove tutti recitano ad altissimo livello e poi c’è un protagonista che lo fa meno bene, la gente se ne accorge.
Il tuo futuro è nel doppiaggio o non escludi un ritorno in tv?
Da piccolo affrontavo tutto senza sforzi, ero spontaneo e naturale. Una volta cresciuto mi sono accorto che non avevo più il fuoco dentro, non sentivo la voglia. Il doppiaggio mi occupava tanto tempo e il resto del tempo preferivo dedicarlo alla musica. Non mi dispiacerebbe tornare sul set, se mi chiamassero per un ruolo ci penserei. Dovrei prepararmi bene e attualmente non ho queste velleità.
La popolarità comunque non ti manca.
Tramite il doppiaggio ho cavalcato l’onda sui social e ho dato una nuova vita alla mia immagine. Non sono più televisivo, ma sul web sta crescendo il mio pubblico e capita che mi riconoscano per strada. Non mi accadeva da quando ero bambino. Se da piccolo mi riconoscevano gli adulti, adesso sono in maggioranza ragazzini e adolescenti. Un altro target.
E c’è ancora qualcuno che associa il volto del ventottenne Polidori a quel bambino col caschetto?
Siamo poco somiglianti. Qualcuno mi dice che ho un viso familiare, però l’accostamento non è immediato. Molti mi conoscono per una cosa, altri per un’altra.