Alessandro Rostagno, quando il critico perde l’aureola
Digitando su Google il nome di Alessandro Rostagno, probabilmente vi imbatterete in un post del mio passato da blogger free-lance. Il personaggio mi ha sempre incuriosito parecchio, ma quando ne ho parlato per la prima volta era ancora agli esordi nel mondo della televisione, facendo del giornalismo scritto la sua professione principale. Di questi tempi,
Digitando su Google il nome di Alessandro Rostagno, probabilmente vi imbatterete in un post del mio passato da blogger free-lance. Il personaggio mi ha sempre incuriosito parecchio, ma quando ne ho parlato per la prima volta era ancora agli esordi nel mondo della televisione, facendo del giornalismo scritto la sua professione principale. Di questi tempi, invece, lo vediamo comparire in ogni dove dell’etere catodico (da Buona Domenica a Gf Mania), trasformando la sua nobile vocazione originaria alla militanza critica in un battutismo di maniera appiattito dall’insopprimibilità del clichè.
Come avevo già avuto modo di sottolineare, Rostagno è l’emblema più eloquente del giornalismo visivo contemporaneo (quello che, oltre a farsi leggere, ha bisogno di farsi vedere).
Non soltanto perchè le sue apparizioni in tv si fanno sempre più frequenti, ma perchè il suo stile così sferzante e pungente si preannuncia marchio di fabbrica di un nuovo modo di “fare notizia” nella post-televisione.
I tempi della comunicazione odierna sono mutati e ad aver intuito il potere dirompente del presenzialismo televisivo rispetto a quello cartaceo è, più di tutti, il nostro Rostagno, ormai assimilabile a una vera e propria macchina da guerra catodica. A decretarne il successo incondizionato, nonchè il plauso di addetti ai lavori e più vetusti colleghi, la sua ormai riconosciuta nomea di “maestro della sintesi”.
Eppure, non gli bastavano una qualità di scrittura decisamente fuori dal comune sostenuta da una preparazione culturale inappuntabile. Rostagno ha deciso di scendere in campo e di mettere in commercio il proprio talento affinchè fosse mediaticamente vendibile, fonte di visibilità oltre che di credibilità (il che ricorda molto la perdita dell’aureola di ascendenza baudelairiana e la mercificazione dell’artista decadente). Non a caso, ha scelto di farsi rappresentare dall’agente più rappresentativo del sistema: Lele Mora. E qui si apre un capitolo altrettanto controverso.
Proprietà di linguaggio a parte, infatti, quel che più rende interessante il critico televisivo in questione è il suo farsi, dietro la veste di ordinario provocatore, istigatore di una generazione e promotore dei suoi linguaggi. Rostagno, che nel quotidiano per cui scrive è talmente ‘libero’ da lanciare strali e invettive verso la cosiddetta tv spazzatura, una volta sbarcato in tv, finisce per sguazzare nello stesso stagno, assimilandone lo spirito aggressivo e rissoso. Perchè Alessandro non si limita a prendere la parola quando è interpellato, rimanendo confinato nell’ordinario punto di vista dell’addetto ai lavori. Fa molto di più: si erge a fustigatore di quegli stessi costumi di cui, in fondo, non può fare a meno e costituiscono la sua identità televisiva. Il suo motto, da lui divulgato in uno programma in cui si discuteva sul talento della De Filippi e destinato a diventare l’emblema dell’esaltazione del trash, è “se io sublimo la merda sono bravo”.
Scrissero di lui, qualche tempo fa, su Il Giornale:
“Rostagno è talmente bravo da infischiarsene allegramente di un eventuale conflitto d’interessi, sbandierato dagli ultrà dell’invidia, pronti a sostenere che un critico non può rischiare di trasformarsi in un divo di quella tv contro cui ogni giorno spara le sue terrificanti bordate”.
Come dire, quello stesso eccesso di una tv visionaria che la firma attualmente più quotata di Libero stigmatizza sulla sua rubrica nominalmente al ribasso, “Telemeno”, di cui ormai celeberrime sono perle come “Francesca Neri fa compassione anche senza tosse” o “Se Maria Callas avesse saputo di Luisa Ranieri avrebbe fatto la sarta”, è diventato il segno distintivo della sua irriverenza, per di più accentuata da un pizzetto appuntito allo scopo. Insomma, Alessandro Rostagno, a noi blogger notoriamente invidiosi e pieni di astio, ci piace o no?
Io, se devo dire la mia, ne preferisco la perfida penna alla lingua biforcuta. E non per appellarmi all’etica giornalistica o alla tutela della deontologia professionale. Nella civiltà dell’immagine in cui viviamo sottrarsi alla marketta è impensabile. Dico solo che un tantino di discrezione in più al nostro Rostagno non guasterebbe, quanto meno per scongiurare l’ipotesi di un fenomeno costruito a tavolino al posto di una testa intellettualmente valida e autenticamente pensante.