The Apprentice, successo rischioso o spaccato provinciale di un’Italia in caduta?
Il programma con il Boss Flavio Briatore continua a lasciar perplessa la critica anche dopo la finale.
Ok, almeno The Apprentice non l’ha vinto uno con “la giacca vista culo che fa il ruffianone (cit.)”. A sorpresa – chissà che la trovata della Zanzara non sia stata figlia di viral marketing e ci siamo cascati tutti – ha vinto il Menegazzo, dai modi di igienista perbenino e precisino (che pure durante il programma non ne ha azzeccata una e si è sempre schermato dietro i più carismatici colleghi).
Ora, all’indomani della finale di The Apprentice, ci sono due versioni. Una di Andrea Scrosati, vicepresidente Sky Italia, che da buon aziendalista difende il prodotto all’Adnkronos:
“Attenzione ai dettagli, scelta dei migliori, umiltà e voglia di rischiare. Per ‘The Apprentice’, come per X Factor, è necessario avere un approccio rigoroso rispetto al format: c’è un motivo se un format ha successo nel mondo e occorre affidarsi con umiltà e modestia a chi ha lavorato per tanto tempo su quel progetto. E poi abbiamo un’attenzione maniacale al dettaglio: la prima puntata di ‘The Apprentice’ è stata rimontata e modificata più di 20 volte fino a raggiungere esattamente quel che noi volevamo. Briatore? Ha capito il ruolo che doveva svolgere e l’ha svolto al meglio”.
Ora, che The Apprentice abbia avuto un bel riscontro anche sul web e fosse confezionato meglio dell’80% dei programmi in circolazione sulla generalista non ci piove. Che sia stato non noioso, nonostante il tema del business sia difficile da veicolare in televisione (vedi il floppone del Contratto di La7), è altrettanto incontestabile.
Ma siamo sicuri che il reale obiettivo di Fremantle, quello di vendere a Cielo un prodotto credibile, sia stato raggiunto? A tal proposito io mi ritrovo molto di più nelle parole della critica televisiva di Europa, Stefania Carini:
“E così sul finale scivola The Apprentice. O forse no. Forse il programma rivelazione dell’anno ha semplicemente mostrato ancora una volta quanto in basso sia caduta la voglia di fare italiana. Dunque, Flavio Briatore si è riciclato come boss che impartisce ordini, legge strategie, urla «Sei fuori!». Tanto che ormai pullalano le imitazioni, la più riuscita è quella di Crozza, che quando fa il comico duro e puro è bravissimo. Che poi: Briatore è già parodia di se stesso, del manager e capitano d’industria italiano, di un saper fare nostrano. Parodia sì, ma di successo. Perché ormai siamo così, forse è inutile nasconderci”.
La giornalista prosegue:
“Già avevamo segnalato come la serie mettesse in scena una Milano di loft, sushi, ape molto (s)fighetta. Eppure è una Milano che esiste, è una Milano che sognano in molti. Sogni provincialisti che si fanno realtà piccola piccola: la conferma arriva dall’ultima prova che hanno dovuto affrontare i due finalisti, un astuto calcolatore ex dipendente della Lehman Brothers e uno spavaldo venditore che non sa una parola d’inglese. I due (cui noi non affideremmo manco le fotocopie, opera precisa e delicata) dovevano, udite udite, organizzare una serata. In un locale. A Forte dei Marmi. Così, alla fine, scopriamo che la prova più tosta è farsi pr. Organizzare eventi. Altro che alta finanza, grande industria, idee geniali! Lo scopo è produrre effimero patinato. E non pensiate che sia solo per somigliare a Briatore, certe inchieste di Report dimostrano che accade lo stesso in altri settori”.
Infine, una sintesi perfetta:
“The Apprentice è un programma volutamente ironico, ma anche talvolta dal retrogusto amaro e triste: ha mostrato la crisi creativa italiana e quella di certi, una volta mitici, luoghi (Milano e Forte)”.
E’ proprio vero che gli addetti ai lavori e la critica hanno sempre un diverso punto di vista. Se The Apprentice è stato molto criticato – e a volte seguito più come fenomeno trashone che di culto – io qualche domanda al posto dei dirigenti di Sky me la farei. Perché X Factor e Masterchef sono presi molto più sul serio?