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Downton Abbey su Rete 4: i motivi di un insuccesso (solo italiano?)

Downton Abbey in Italia non è stato un successo: gli ascolti sono in calo, mentre la critica elogia la serie tv. TvBlog ha chiesto a blogger ed esperti come mai, secondo loro, il drama da noi non ha avuto lo stesso successo che ha ottenuto all’estero, scoprendo che negli altri Paesi in Europa i numeri non sono come quelli inglesi

pubblicato 13 Gennaio 2014 aggiornato 3 Settembre 2020 09:41

Chissà se Lady Mary ed il conte di Grantham riterrebbero una discussione di questo genere adatta ad una delle loro cene, oppure se glisserebbero chiedendo di poter cambiare argomento: “Downton Abbey”, serie tv dei record in giro per il mondo, è flop in Italia. Questo è quanto si è sentito nei giorni scorsi, approfittando del finale della terza stagione del telefilm di Itv andato in onda su Rete 4 e seguito da 825 mila telespettatori (3% di share). Ma come, una serie tv così apprezzata in tutto il mondo da noi non riesce ad avere lo stesso successo?

TvBlog ha provato a capire i motivi di un tale risultato, chiedendo ad esperti del settore ed arrivando fino alla direzione di Rete 4 per cercare di capire dove stiano (se ce ne sono) i motivi di questa scarsa affezione del pubblico televisivo. Nel nostro percorso, però, abbiamo anche scoperto che nel resto d’Europa i risultati di “Downton Abbey” non si avvicinano ai numeri da record inglesi ed americani (la terza stagione ha debuttato sulla Pbs domenica scorsa con 10,2 milioni di telespettatori)…

Downton Abbey: gli ascolti in Italia

Il nostro Hit nei giorni scorsi ci ha mostrato come la serie tv di Julian Fellowes abbia subìto un calo di ascolti nel corso delle stagioni andate in onda: il primo episodio, trasmesso a dicembre 2011, fu visto da 1,5 milioni di telespettatori (6% di share), con la prima stagione che ottenne una media di 1,3 milioni di persone (5,5% di share). La seconda, andata in onda nel 2012, mostra un calo, con una media di un milione di telespettatori (4,4% di share). La terza stagione, trasmessa fino a giovedì scorso, subisce un ulteriore calo, con una media (esclusa l’ultima puntata) di 949.000 persone (4% di share).

Downton Abbey: l’opinione di Feyles e l’ “accusa” di Freccero

Numeri che non possono affermare che la serie sia stata un successo per Rete 4. Il direttore di rete, Giuseppe Feyles, intervistato da “La Repubblica” giustifica la scelta di portare sulla tv generalista un prodotto come questo, sottolineando come il carico di pubblicità all’interno della serie non sia stato aumentato rispetto ad altri prodotti, critica rivolta alla rete da numerosi telespettatori:

“Sapevamo che era un prodotto difficile perché parla alla testa e non alla pancia, ma respingo al mittente le critiche, è giusto mettere nel palinsesto la qualità alta, dobbiamo offrire prodotti per ogni tipo di pubblico, non solo quelli “larghi” per tutti. Ci abbiamo creduto e l’abbiamo proposta durante le feste. Gli ascolti non sono una sorpresa, per un livello così alto possiamo rinunciare a qualche punto di share, è un ottimo risultato. Perché destinare una serie così solo alla pay tv? La pubblicità era identica, forse verso la seconda parte era più intensa”.

Per Feyles si tratta di una sfida che non è stata vinta ma non per questo segna una sconfitta, tant’è che annuncia la quarta stagione, in onda da noi a dicembre:

“Downton Abbey mi ha colpito per la cura. Tanta bellezza è un messaggio per la nostra società, che è sciatta: quella era una società dove la cura della casa e delle persone – rispettate sia upstairs che downstairs – è centrale. È ciò di cui sentiamo nostalgia. Proporremo anche Downton Abbey 4”.

Carlo Freccero, invece, la pensa diversamente: per lui Rete 4 non è adatta a mandare in onda un prodotto come questo:

“È importante la rete, eccome: ognuno fa il proprio palinsesto ma Retequattro non è adatta. In Gran Bretagna è naturale che siano impazziti. Gli americani, grandi fan di Downton Abbey, hanno un complesso verso gli inglesi e il fatto che negli Stati Uniti vada in onda sulla Pbs, la rete pubblica, ha aggiunto forza. In Italia la fiction in costume è sempre vissuta attraverso la chiave del melodramma, mentre Downton è più complessa, è sui rapporti di potere declinati anche attraverso i legami amorosi”.

Downton Abbey secondo due blogger

TvBlog ha quindi cercato di estendere la discussione. “Downton Abbey”, sebbene in tv non abbia avuto ascolti da record, ha comunque una buona fetta di fan anche in Italia, dove, a seguire la serie, sono soprattutto i giovani che usano internet (e quindi il download illegale e lo streaming) per seguire gli episodi della serie tv inglese, senza aspettare la messa in onda italiana. “Downton Abbey” ha così due facce, in Italia: il pubblico televisivo non ne è entusiasta, quello della rete lo apprezza. E’ il caso di Debora Marighetti, redattrice storica di TvBlog, ora a capo del sito “Tv (in) Diretta”, che ci ha raccontato come ha iniziato ad apprezzare la serie tre anni fa:

“Ho scoperto questa serie quando era iniziata in Uk la seconda stagione. Mi sono messa con sospetto a guardare la prima puntata, immaginandomi un lento polpettone, ma pochi minuti dopo ero innamorata di tutti i personaggi, sia buoni che ‘cattivi’, simpatici e antipatici, alcuni dei quali veramente geniali. Quando è arrivata in Italia – con un po’ di ritardo, purtroppo – mi aspettavo numeri soddisfacenti, o almeno dei dati in crescendo, ma sono rimasta a bocca aperta di fronte al disinteresse del pubblico. Eppure c’era stata una buona pubblicità e la serie era stata presentata come un evento”.

Debora crede che l’insuccesso del telefilm possa essere dovuto alla rete, ma estende il suo pensiero trovando anche una possibile spiegazione nel gusto dei telespettatori del nostro Paese verso una serie inglese che, per stile e battute, è molto diversa dalle nostre:

“Dire che cosa non abbia funzionato non è certo facile. Posso immaginare che la gente sia stata tratta in inganno dalla rete di messa in onda e l’abbia considerato un prodotto ‘per vecchi’, adatto ad un pubblico che resta incollato di fronte a Tempesta d’amore e non vede l’ora che vengano messe in palinsesto le repliche di Lo chiamavano Trinità. Senza nulla togliere a questi programmi, ovviamente. Ma ci può essere anche una causa legata alle fiction nostrane. Pensare ad una serie tv ambientata nel passato può far subito venire alla mente la saga di Elisa di Rivombrosa, tanto in auge qualche anno fa, ma ormai superata. Forse il pubblico temeva si trattasse di un prodotto simile. O forse non ha semplicemente simpatia per le produzioni britanniche, che hanno uno stile, una scrittura e una cura del dettaglio completamente diverse dalle nostre. A buon intenditor…”

Il gusto non c’entra per Fulvia Leopardi di “Televisionando”, che crede invece che il pubblico non abbia compreso il formato italiano degli episodi:

“Credo che il ‘flop’ italiano di Downton Abbey sia dovuto non tanto ai gusti del pubblico (si spera sempre che i telespettatori apprezzino la qualità) quanto a una molteplicità di fattori; escluderei la pubblicità, perché gli spot chilometrici esistono dovunque, a mio avviso incide più il taglio selvaggio delle puntate, ridotte da otto (speciale natalizio escluso) a cinque. Nelle sceneggiature di Fellowes ogni dettaglio conta e la minuzia dell’episodio tre può essere la bomba dell’episodio otto; vero è che potendole vedere in anticipo è possibile tagliare cum grano salis le scene inutili, ma chi decide cosa è inutile se lo stesso creatore ha deciso che quella scena, piuttosto che un’altra, doveva andare in onda? Se si vuole puntare sulla tv di qualità (applausi a Rete 4), è giusto farlo credendoci, senza usare la roncola per programmare due episodi nello spazio di uno.”

Downton Abbey: manca la confezione adatta?

Luca Barra di “Link. Idee per la televisione” e docente di Economia dei media all’Unviersità Cattolica di Milano, si sofferma invece sulla linea editoriale della rete che, aggiunta alla disaffezione fisiologica dei telespettatori, non giova alla serie:

“Già di suo il prodotto straniero è visto ‘lontano’ da una parte del pubblico, che sia per il doppiaggio o per differenti valori produttivi o ancora per lo ‘scarto culturale’ negli immaginari. Poi c’è il fatto che stiamo parlando di una serie già avviata da tempo, e quindi si somma al calo fisiologico di spettatori attraverso le stagioni anche la difficoltà per chi incontra solo ora la serie di recuperarne i passaggi precedenti. C’è senza dubbio anche un discorso di promozione – anche se per la generalista, come dimostra la Raitre di quest’anno, l’hype non garantisce ascolti – ma forse più ancora di ‘ambiente’, di una linea editoriale costruita nel tempo, di una destinazione che diventi naturale per lo spettatore, di una “confezione” adatta (che spesso vale più del singolo prodotto).”

E se, invece, dipendesse dal cambiamento di abitudini, sia tra chi lavora in tv che tra chi la segue?

“Non è tanto questione di chiedersi perché un singolo contenuto ‘non funziona’, quanto piuttosto di domandarsi se si sono negli ultimi anni – contestualmente peraltro all’enorme cambiamento di scenario digitale – abbandonate una serie di pratiche e di attenzioni di lungo periodo nella programmazione, di consuetudini (degli addetti ai lavori e degli spettatori) che funzionavano anche da promessa e da garanzia.”

Lo scenario televisivo potrebbe dunque aver danneggiato la fruzione di un prodotto come “Downton Abbey” che, con la sua apparente semplicità nel racconto, richiede una consuetudine nella fruizione che oggi non è possibile ripetere per così tante stagioni.

L’opinione di Cristina Veterano

Cristina Veterano ora è channel manager di Top Crime, ma fu la prima a “scoprire” e portare in Italia “Downton Abbey”, capendone le potenzialità fuori dall’Inghilterra. Una decisione, quella di far trasmettere questa serie da Rete 4, che rifarebbe subito, certa che il “flop” di cui si parla in realtà non ci sia:

“Rivendico con orgoglio la ‘scoperta’ di ‘Downton Abbey’. Una scelta che per Retequattro sarei pronta a rifare ad occhi chiusi. Infatti, della sua performance la rete è soddisfatta e, aldilà degli ascolti, ‘Downton Abbey’ è stata apprezzata anche dagli investitori pubblicitari. Detto ciò, è un fatto che gli ascolti italiani non siano paragonabili a quelli inglesi e americani. Un dato, quello italiano, che si avvicina a quello di altri paesi europei come Francia, Germania, Spagna. Il fenomeno è evidentemente frutto di gusti diversi da parte di pubblici diversi, per un prodotto bello ma fortemente ‘british’ in termini di ritmo, ambientazione e scrittura. Probabile che abbiano avuto un certo peso alcuni preconcetti nei confronti di Retequattro, che è la rete che ha proposto documentaristica come ‘Life’ e ‘Apocalypse’, serie come ’24’, ‘Band of Brothers’, ‘The Pacific’, ‘I pilastri della Terra’ e, da mercoledì 15 prossimo, ‘Hatfield & McCoys’ e, da marzo, ‘La Bibbia’ “.

La Veterano, inoltre, non ci sta quando sente dire che Rete 4 ha “tagliato” la serie:

“Concludo ricordando che ‘Downton Abbey’ è andata in onda integralmente, senza tagli, censure, rimontaggi e in doppio audio, semplicemente in una confezione più adatta al palinsesto italiano: ovvero alcuni episodi sono stati uniti in un’unica serata”.

L’opinione di Diego Castelli

Diego Castelli, channel manager di Iris ed appassionato di serie tv, ha fatto parte della redazione che decise di mandare in onda “Downton Abbey” su Rete 4: anche lui si dice soddisfatto di quella scelta, ed ammette che i dati d’ascolto non potrebbero essere come quelli inglesi, che sentono più vicina a loro la storia dei protagonsti:

“Personalmente ritengo ‘Downton Abbey’ uno dei migliori prodotti seriali di questi anni, ed ero e sono ben felice di far parte della redazione che ha voluto proporlo al pubblico italiano. Certo, piacerebbe anche a noi fare i dati d’ascolto inglesi, ma dobbiamo considerare che quello che in Gran Bretagna è un prodotto con profonde radici nella tradizione storica e stilistica del pubblico di casa, e quindi a suo modo molto “popolare”, da noi assume caratteristiche diverse, che ne fanno un’offerta necessariamente più di nicchia, adatta a un pubblico più consapevole. In questo senso, la messa in onda su Retequattro è un ulteriore punto di orgoglio, per una serie che altrimenti rischierebbe di trovare spazio solo nell’area più circoscritta della pay tv”.

La pay tv potrebbe aver cambiato le abitudini dei telespettatori in cerca di serie tv di qualità come questa che, di fronte ai vari spot, potrebbe aver cambiato canale:

“Ovviamente comprendo anche la frustrazione di chi fatica a tornare alla fruizione tipica della tv generalista, intervallata dagli spot, avendo magari visto ‘Downton’ senza pubblicità e senza vincoli di orario, in forme più o meno legali (che comunque non credo abbiano inciso in modo decisivo sulla performance della serie). Ma d’altronde piattaforme diverse impongono regole diverse: la pubblicità consente al pubblico di avere ‘Downton’ gratuitamente, e consente a noi redattori di pagare le bollette. Al momento una via alternativa che tenga insieme tutti ma proprio tutti i desideri e le esigenze non esiste, né qui né altrove”.

Il vicedirettore Carlo Panzeri: “sì al dibattito, ma…”

A chiudere questa sequenza di interventi, segnaliamo le parole del vicedirettore di Rete 4 Carlo Panzeri che riassume tutte le questioni sollevate precedentemente e prova a rispondere, difendendo ovviamente la scelte della rete. Secondo Panzeri, il calo di “Downton Abbey” non è dovuto al traino delle soap:

“Si è detto che si tratta di una collocazione di palinsesto sbagliata l’aver collocato ‘Downton’ dopo ‘Il segreto’ e ‘Tempesta d’amore’, fingendo di ignorare che, da una parte, dopo gli access c’è un rimescolamento di pubblico che caratterizza l’avvio della prima serata, attorno alle 21.15. E dall’altra parte, non considerando che, per assurdo, se fossero vere le argomentazioni di cui sopra (e secondo me, lo ribadisco, non sono né vere né esaurienti) quale altro prodotto c’è nel palinsesto – non solo di Retequattro, ma dell’intero panorama delle generaliste – in grado di essere coerente e adeguato traino a ‘Downton’, alla sua scrittura raffinata, alla regia elegante, alla profondità di connotazione dei personaggi?”

Non sarebbe neanche colpa della rete stessa, che ha dimostrato in passato di avere già trasmesso produzioni amate dalla critica e che avrebbero permesso alla rete di avere un’identità rivolta alla qualità delle serie:

“E, poi, non concordo con chi sostiene che questo prodotto non sia adatto a Retequattro. Mi rendo conto di essere parte in causa e quindi un osservatore non neutrale. Però, sforzandomi di mantenere uno sguardo oggettivo, non posso fare a meno di dire che la programmazione di ‘Downton Abbey’ su Retequattro si inserisce in un solco di scelta e programmazione di prodotti fiction di alto livello: per parlare del passato, ricorderei ‘I pilastri della Terra’; per buttare un occhio al futuro cito soltanto ‘Hatfields & McCoys’ e ‘La Bibbia’, di qui a poco in palinsesto. Se allargassimo lo sguardo all’intera programmazione, come non ricordare la grande documentaristica (trasmessa, sia detto per inciso, per intero e non a spizzichi e bocconi) e gli sforzi fatti sull’informazione e sull’infotainment… Questi sforzi, che si tratti di fiction piuttosto che di produzioni, devono trovare una maggiore continuità (non suoni come una excusatio, ma la questione dei budget disponibili è tutt’altro che secondaria).”

Panzeri ammette il calo di ascolti, ma trovare un “colpevole” è difficile:

“Certo gli ascolti sono stati inferiori a quanto speravamo. Perché? Qui si apre spazio per un franco scambio di opinioni. L’ambientazione nell’Inghilterra di inizio Novecento, con la rappresentazione di un mondo, di una sensibilità e finanche di un umorismo che certo non ci sono vicini? L’estrema ricchezza narrativa, che si può trasformare in difficoltà od ostacolo? La complessità dei personaggi, che non concedono sconti? Nessun personaggio è interamente buono o cattivo. Ognuno, come nella realtà, ha dentro di sé una profonda positività insieme a un’ineliminabile tensione alla caduta. L’alto e il basso, che sono rispettivamente il piano superiore della casa, riservato ai nobili, e le cucine, luogo simbolo della servitù, alludono anche a un alto e basso morale… Ma costruendo un potente e affascinante effetto di rovesciamento, anzi di complicazione… Non c’è nessuno, né ricchi né poveri, che sia interamente buono o interamente cattivo. ‘Come tutti gli uomini, in qualsiasi luogo’, per citare il grande Eliot.”

La questione non è semplice, sia che si tratti di considerare la serie o il canale:

“Tutti questi elementi, che sono alcuni dei punti di forza, degli ingredienti dell’eccellenza di ‘Downton’, sono inusuali se li confrontiamo con la programmazione di racconto che le altre generaliste (e Retequattro stessa), mettono prevalentemente in campo. Né meglio né peggio, semplicemente diversi. Un problema di abitudine, quindi? Anche, ma non solo. Insomma, vorrei soltanto dire che non c’è un risposta semplice. E nel contempo vorrei aggiungere che, qualche volta, considerando il complesso dell’offerta, si tratta di provare a lavorare anche prospetticamente. Gli elementi che citavo sopra, non li scopriamo adesso.”

Allora, si consideri “Downton Abbey” un modo per rafforzare l’identità di rete e permettere al pubblico generalista di seguire storie diverse dalle solite, anche se gli ascolti non sempre dà ragione a questo punto di vista:

“Crediamo fortemente nel fatto che, a volte, si può provare a fare un piccolo tratto di strada con il proprio pubblico e magari ad aggregarne anche dell’altro. Quelli, insomma, a cui la bellezza sfidante ed affascinante di questi prodotti non fa paura. E questo è anche un modo per fare un “investimento”, per gettare dei semi che, ci auguriamo, prima o poi porteranno ancora più frutto, in termini di ascolto e anche nella direzione di rendere ulteriormente chiara, distintiva e forte l’identità della rete”.

Downton Abbey in Francia, Spagna e Germania

Abbiamo capito che “Downton Abbey” in Italia si può definire flop per gli ascolti, ma non per quanto riguarda l’investimento di una rete generalista che, una volta ogni tanto, ha sfidato i numeri scegliendo una serie elogiata dalla critica. Se andiamo a confrontare i dati italiani con quelli di tre Paesi non angolofoni, però, scopriamo che la serie tv non è un successo come in Inghilterra. In Francia, ad esempio “Downton Abbey” va in onda su Tmc, canale free del digitale terrestre di Tf1. Qui la prima stagione ha avuto una media di 826 mila telespettatori (4,1% di share), contro il 3% di media nello stesso slot. La seconda stagione è stata vista da una media di 721 mila persone (3%), la terza da 767 mila (3,7% di share). I numeri sono anche inferiori a quelli italiani, sebbene vada considerato che il canale non ha lo stesso bacino di utenti di Rete 4.

In Spagna, invece, “Downton Abbey” va in onda sul canale commerciale Antena 3, dove il successo è stato maggiore: la prima stagione ha vuto una media di 2,8 milioni di telespettatori (14,8% di share), la seconda di 1,9 milioni (10,9%), la terza di 1,6 milioni (8.9%). Numeri mediocri anche in Germania, dove lo show è trasmesso da Zdf: la prima stagione (la seconda è ora in onda) ha avuto una media di 2 milioni di persone (9,8% di share). Insomma, numeri non da record, che sottolineano come “Downton Abbey” sia un fenomeno soprattuto di critica per quanto riguarda i Paesi non anglofoni, dove il successo di pubblico è cosa certa.

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