Post-Televisione
Inauguriamo con questo post una nuova categoria che parla della televisione che c’è e la confronta con quella che vorremmo, argomento troppo spesso dimenticato, altrettanto spesso richiesto a gran voce da alcuni dei lettori di TvBlog – almeno quelli che hanno la voglia e la pazienza di comunicare privatamente le loro richieste, cose che, ve
Inauguriamo con questo post una nuova categoria che parla della televisione che c’è e la confronta con quella che vorremmo, argomento troppo spesso dimenticato, altrettanto spesso richiesto a gran voce da alcuni dei lettori di TvBlog – almeno quelli che hanno la voglia e la pazienza di comunicare privatamente le loro richieste, cose che, ve lo ricordo, potete fare tutti scrivendoci una mail.
La Post-Televisione è già nata. Ma prima di parlarne, ricordiamo i due termini (allora neologismi) coniati da Umberto Eco per datare in qualche modo le ere della televisione italiana.
Si parlava di paleotelevisione per indicare l’era della tv di Stato, con un’impostazione pedagogico-educativa (quasi mai riuscita, a giudizio del sottoscritto). I generi erano nettamente separati, l’intento moralistico e paternalistico nei confronti dello spettatore era dichiarato, l’invadenza rispetto alla vita quotidiana dello stesso tentava di essere limitata.
Poi venne la neotelevisione: l’era delle reti commerciali, delle televendite, delle aste, della partecipazione diretta del pubblico.
L’anello di congiunzione – e di separazione insieme – fra questi due momenti evolutivi dell’amatodiato mezzo di comunicazione di massa piu’ pop che il mono potesse immaginare è rappresentato – idealmente, metaforicamente e fisicamente -, almeno in Italia, da un programma ben preciso: Portobello (nell’immagine, lo storico pappagallino, in uno scatto del 1982).
Scriveva Eco:
Il telefono di Portobello, e di trasmissioni analoghe, mette in contatto il gran cuore della televisione col gran cuore del pubblico. E’ il segno trionfante dell’accesso diretto, è ombelicale, magico. Voi siete noi, voi potete entrare a far parte dello spettacolo. Il mondo di cui la Tv vi parla è il rapporto tra noi e voi. Il resto è silenzio.
E oggi, ci perdonerete la presunzione, siamo qui a sostenere che anche la neotelevisione si è evoluta – lungi da me sostenere o utilizzare il verbo proibito, quello che ha a che fare con i decessi – in post-televisione, o posttelevisione, come piu’ vi aggrada.
E’ la televisione del flusso, caratterizzata, nei suoi primi passi e vagiti, da una straordinaria confusione nei palinsesti, dalla commistione dei generi esasperata e poi rigettata, da una ricerca di conferme che va oltre la spasmodica caccia all’ascolto, ma che non è capace di liberarsene.
E’ la televisione della frammentazione, dell’on demand che si avvicina, e che va verso un’evoluzione ulteriore (per la quale non so essere nomoteta), quella dell’autodeterminazione dei contenuti. E tacciamo, per ora, il lato ultra-pop di YouTube, onde evitare di perdere il filo.
Se volessimo cercare un esempio calzante per la post-televisione (scelgo questa grafia, non me ne vogliate), che ne incarni l’essenza, io mi soffermerei sull’apparizione a sorpresa di Fiorello su RaiUno: (im)prevista, replicabile ma forse improponibile (oppure no), e con profondi debiti nei confronti di una certa televisione che un tempo veniva proposta in seconda o terza serata (penso a Arbore) e che oggi potrebbe tranquillamente affrontare, in maniera piu’ che dignitosa, l’acess prime time. E forse anche il prime time.
Per la cronaca, però, gli ascolti stimati di Portobello toccavano la cifra record di 26milioni di spettatori a puntata. Numeri che oggi la post-televisione si sogna. Non riesco però a distaccarmi da questioni di gusto personale: se Portobello è un esempio universale – per quanto la sigletta con il pappagallino sia uno dei miei tormentoni ricorrenti -, forse Fiorello lo è di meno. E anche questa, in fondo, è l’essenza della post-tv: la soggettività, la moltiplicazione della scelta con lo spettatore – quello che vuole esserlo – sempre piu’ critico, sempre meno passivo.