Arrested Development, ovvero: Ti presento i miei (ma a tarda serata)
Ormai è quasi una tradizione: periodicamente, TvBlog ospita una bella recensione di Mario A. Rumor. Questa volta tocca a Arrested Development. Nostra Signora Tv le cose degne d’attenzione le santifica nel buio pesto della terza serata, c’è poco da fare. O sei solare e familiare come la gang di Una mamma per amica, o indossi
Ormai è quasi una tradizione: periodicamente, TvBlog ospita una bella recensione di Mario A. Rumor. Questa volta tocca a Arrested Development.
Nostra Signora Tv le cose degne d’attenzione le santifica nel buio pesto della terza serata, c’è poco da fare. O sei solare e familiare come la gang di Una mamma per amica, o indossi un camice da laboratorio e quindi risolvi orrendi crimini per il bene della società oppure niente. Un miraggio, insomma, il salvacondotto per aiutare lo strampalato gruppo (affatto solare e poco familiare) di Arrested Development a uscire dall’anonimato e guadagnarsi il rispetto che merita in prima serata. Chiediamo tanto? Lo implorano le nostre cellule cerebrali, lo implora il videoregistratore di casa che eterno non è. Lo implora il buon senso. Perché la sitcom ideata da Michael Hurwitz e servita dalla voce e dai quattrini di Ron Howard, decrittatore cinematografico de Il Codice Da Vinci, è una spassosa commedia anti-familiare ma anche l’esempio supremo di come si possano realizzare situation comedy lontane dagli schemi e dai codici (pardon: ci è scappata)… dai cliché vetusti della tivù americana: quella costruita fra quattro pareti di cartone, luci glamour puntate sui volti di personaggi ruffiani come pochi e idilliaci esterni – chessò: newyorkesi? – da cartolina illustrata o da materiale di repertorio.
La famiglia Bluth non ha bisogno di optional del genere per esistere sul piccolo schermo: si arrangia con un’insolita inaffidabilità che dovrebbe rispondere al classico “anche i ricchi piangono” (padre in gabbia, madre snob e megera, figli con vita disastrata, avvocati difensori col volto di “The Fonz” che sembrano una rilettura in carne e ossa dell’avvocato Lionel Hutz de I Simpson) e invece si trasforma in un inedito “anche i ricchi ci fanno ridere”. Mica ironia a denti stretti o comicità forzata. Al diavolo etichetta e buone maniere: la famiglia Bluth è un ricettacolo universale di perfidia e doppio gioco (gli stessi ingredienti delle soap opera), di finta intimità dove la legge della sopravvivenza porta perfino a convertirsi all’ebraismo, a sacrificare gemelli fricchettoni (Oscar, clone tonto e passionale di papà Bluth) o a mettere in ridicolo la santità dell’unione coniugale. Qualcosa di buono ci scappa pure, come insegnano il rapporto padre-figlio tra Michael (Jason Bateman) e George Michael (Michael Cera) o le ricette culinarie di Carl Wheaters (indimenticabile interprete di se stesso). Tutto il resto sfugge al controllo di ormoni, cellule cerebrali e istinti primordiali per ridisegnare il profilo della famigliola americana e costringerci perfidamente a una scelta: meglio il mago Gob? L’omino “wannabe” Tobias? Lo sfigato mammone Buster? Mamma Lucille? Brutta notizia: su questo la serie è irremovibile. Per quanto sfaldata e irregolare, la famiglia televisiva Bluth non vale niente se separata. Ha valore solo se unita sotto il segno della tragicomicità. Del resto la locandina ufficiale parla chiaro: la famiglia Bluth al completo su una barca che affonda. Quante altre famiglie perfette si prenderebbero così poco sul serio? Soprattutto: perché mai i strategici del palinsesto di Italia 1 non la prendono sul serio?