Sanremo 2013: «Lasciate crescere l’erba» al Festival che infastidisce chi non trova appigli per criticare
Partiamo da un presupposto: al sottoscritto, dire bene o male di un Festival o dell’altro non cambia nulla. Non so a voi. Non mi fa piacere dir male o dir bene di qualcosa che passa in tv: mi piace scriverne in libertà, che è diverso.Detto ciò, il fatto è che ci sono due sensazioni che
Partiamo da un presupposto: al sottoscritto, dire bene o male di un Festival o dell’altro non cambia nulla. Non so a voi. Non mi fa piacere dir male o dir bene di qualcosa che passa in tv: mi piace scriverne in libertà, che è diverso.
Detto ciò, il fatto è che ci sono due sensazioni che non riesco proprio a scrollarmi di dosso, quest’anno. La prima sensazione è che sia stato tutto organizzato nel migliore dei modi, anche a livello comunicativo, e che la pacatezza con cui si risponde a eventuali critiche sia un funzionalissimo ed efficace muro di gomma spalmato di melassa per far scivolare giù le obiezioni, qualora non bastasse il rimbalzo.
E questo è un bene, a dire il vero, perché siamo troppo abituati ad altre forme di comunicazione, in cui non si argomenta affatto e si rimbalza, sì, ma in maniera sgradevole. Non è questo il caso.
La seconda è che ci sia una frangia di giornalisti mainstream disperati. Perché non trovano nulla a cui appigliarsi per criticare.
Ci hanno provato con Crozza contestatissimo. Ma non è stato affatto contestatissimo.
Aspettavano i dati d’ascolto (quelli che a noi interessano per dovere di cronaca, ma non per conferma di qualità), e non sono stati soddisfatti.
Attendevano interventi dell’AgCom, ma è venuto fuori che pezzi di avanspettacolo o commedia o satira non sono soggetti alla par condico (ma chi l’avrebbe mai detto).
Si auguravano che il progetto delle due canzoni fosse fallimentare, e così non è stato.
Pensavano che le scelte autoriali fossero poco pop. Invece sono state popolari e hanno reso popolari momenti alti. Come Stefano Bollani, che fa un ottimo ascolto (il picco è di Baudo, il vecchio leone).
Hanno provato a soffiare sulle braci del «festival comunista». Ma se parlare di diritti civili e integrazione e fare monologhi contro la violenza sulle donne è «comunista» forse bisognerebbe riflettere un po’.
Adesso possono scagliarsi in qualche modo contro la giuria di qualità, dopo essersi scagliati contro il televoto; per tacer di chi parla di social network senza sapere cosa siano (come potrebbero, di grazia, influenzare gli ascolti televisivi?); di chi si addentra in discorsi sulle percentuali numeriche come se i numeri fossero una questione esoterica (e bravo Pagnoncelli, a dire che non è il mago Otelma); di chi nomina chi paga il canone come se ne fossero rappresentanti; di chi, a volte, parla di tv senza sapere cosa sia l’intrattenimento (per carità, non si offendesse nessuno: è solo una sensazione); di chi parla, infine, per il solo gusto di sentire il tono della propria voce (e quest’anno, la Rai non inquadra chi fa le domande. Un dramma, per l’ego, come faceva notare Franco Bagnasco su Twitter).
Ma se dovessi scommetterci su, penso proprio che gomma e melassa faranno il loro dovere. Come lo ha già fatto quella che, per il sottoscritto, è stata una dimostrazione di qualità televisiva in un carrozzone come il Festival di Sanremo dove è difficile fare bene.
Il che non farà che contribuire al fastidio di alcuni (anche se almeno una cosa brutta, in questo Festival, c’è: la statua di Mike. Fidatevi, è terribile).
E allora, visto che l’ultima sensazione, quella definitiva, è che ci sia una curiosa tendenza a parlar bene o male a seconda di chi fa le cose, e non di quello che accade o si vede, ecco che non posso che far mio l’invito degli Almamegretta di ieri: a Sanremo, lasciate crescere l’erba. Aiuterà a dir bene o male in libertà, senza pretesti, e ad arrendersi quando è il caso: a volte anche dir bene è liberatorio.