L’Aria Che Tira, Myrta Merlino a TvBlog: “Lavoreremo sulla memoria: senza ricordi, condannati a vivere in un eterno presente”
La giornalista torna al timone del programma di LA7: “Continueremo a mettere i piedi nella realtà, è un patto col pubblico”
Myrta Merlino conclude anticipitamente le ferie per tornare domani, lunedì 2 settembre, alla guida de L’Aria Che Tira, il talk show della mattina di LA7. In onda dal 2011, la giornalista napoletana riprende il testimone dal collega Francesco Magnani, che ha condotto la versione estiva della trasmissione. In vista dell’esordio stagionale, Myrta Merlino ha risposto ad alcune domande di TvBlog sui suoi obiettivi professionali e sul rapporto tra informazione televisiva e politica.
L’Aria Che Tira torna nella sua versione consueta in anticipo rispetto al palinsesto, cosa ha determinato questa scelta? Esigenze di rete, decisione personale o emergenza politica?
Mi sono confrontata col direttore di rete Andrea Salerno e ci siamo trovati d’accordo. Ho sentito l’esigenza di tornare perché ho avuto la sensazione che ci sia un doppio livello di analisi dell’attualità politica, che va indagato quanto prima: quello della soap e quello della storia. In quest’estate hanno regnato chiasso, grandi tweet, perentorie dichiarazioni social – presto smentite -, detti e contraddetti, con aspetti anche un po’ farseschi. Non è un caso, infatti, che i due promo in onda siano parodie di due serie, Beautiful e House of Cards. L’impressione, tuttavia, è che in questo clima di confusione si stiano scrivendo pagine fondamentali di storia. Tolta l’Ungheria, l’Italia è stato il primo grande paese europeo che si è offerto come laboratorio dell’esperimento sovranista, ormai quattordici mesi fa, guardato da tutti con sospetto ed interesse. Ora l’antipolitica, il partito del Vaffa, confluisce in un accordo di governo col partito che è l’erede maggiore dei grandi partiti del secolo scorso, il Partito Democratico. Questo evento rischia di rappresentare un cambiamento epocale a livello europeo. È rilevante se Trump (con qualche problema di spelling) fa un tweet sul premier Conte, se le cancellerie estere manifestano coinvolgimento, se Merkel e Von der Leyen tengono gli occhi rivolti all’Italia. Il nostro compito sarà di stare dentro il racconto dell’operetta italiana, tra le crisi di nervi e i toni da melodramma, e contemporaneamente di spiegare ai cittadini italiani cosa sta accadendo, come sta cambiando il DNA del nostro paese. Da cittadina nutro tante paure, ma da giornalista lo considero un momento storico entusiasmante. In diretta, reagendo in maniera istintiva alle notizie, racconti qualcosa che devi decriptare in tempo reale per renderlo comprensibile al pubblico. Un lavoro che dà grande adrenalina, come una gara sportiva. Senza arrivare alle maratone di Mentana, che io quelle quindici ore non sarei in grado di farle (ride).
Una situazione complessa, in cui tutto avviene molto velocemente. Ho come l’impressione che tutto avvenga quasi in funzione della rapidità dei social, delle dirette Facebook più che delle dirette televisive. Quanto è difficile per la tv mantenere il ritmo e rispondere a una richiesta puntale di informazione?
Ti rovescio il dubbio. La ritengo una grande occasione per la televisione. Questa crisi ha messo a confronto e fuso l’antichissimo e il modernissimo, le vecchie liturgie e i ritmi fulminei dei social. L’errore di valutazione di Salvini è stato questo: il Matteo del Papeete è quello che parla direttamente al suo popolo, respinge ogni intermediazione e sente sulla propria pelle l’amore della gente, tanto da pensare addirittura di aprire una crisi di governo in pieno agosto, portando il paese al voto perché ormai padrone della scena. Ad un tratto, però, ci accorgiamo che viviamo in una repubblica parlamentare, che in una situazione simile è il Parlamento a scandire i tempi. Così torniamo ai meccanismi più antichi del nostro parlamentarismo, con l’uomo fuori dai social, che è il presidente Mattarella, che torna in scena, riprende in mano le redini e rimette in ordine le cose. Tra le maglie della rete, abbiamo visto le scintille tra nuovo e vecchio, che in quest’estate ha trionfato, imponendosi sui tempi della contemporaneità. Tuttavia, è anche vero che tutto è cambiato nel racconto di questa crisi. Non c’è nulla della Prima Repubblica in ciò che sta avvenendo, come ventilato in questi giorni. All’epoca capitavano cose che noi umani non riuscivamo a conoscere, se non attraverso il lavoro di alcuni cronisti parlamentari particolarmente esperti. Oggi la gente sa tutto, vede tutto, sente i rumori e vede le faccie. Ascolta le parole, percepisce gli umori, che i social amplificano, riproponendo quegli schemi narrativi che sono propri della comédie humaine.
Rimaniamo sui social: l’anno scorso ci aveva rivelato che l’obiettivo che avrebbe perseguito con L’Aria Che Tira sarebbe stato la lotta alle fake news, facendo uscire i politici dai social e mettendoli davanti a interrogativi chiari. Si ritiene soddisfatta del lavoro? Quali sono gli obiettivi di questa edizione?
Anche quest’anno cercheremo di evitare il solo racconto della politica politicista e di mettere i piedi nella realtà. È un patto che abbiamo stretto con i telespettatori: dagli intrighi di palazzo ai problemi di chi non arriva a fine mese, le crisi industriali, le conseguenze dell’aumento dell’IVA sull’economia delle famiglie. Sentiamo la responsabilità di chi compie un servizio pubblico, di chi deve porre la verità e l’interesse collettivo al centro, anche facendosi promotore di cause comuni. Il ruolo dei giornalisti televisivi, soprattutto quelli della mattina, che hanno un pubblico che si affida a loro totalmente e non ha probabilmente letto tutti i giornali quando si mette davanti allo schermo, è di raccogliere i segnali che arrivano perennemente dalla rete, fornire gli attrezzi per leggere l’attualità ed aiutare a fare ordine. Quest’anno vogliamo lavorare molto anche sulla memoria. Ho la sensazione che uno dei drammi maggiori di questo paese sia la memoria da pesce rosso, e la politica marcia molto su questo. La gente viene travolta da un fiume inarrestabile di parole e si dimentica di ciò che ascolta. Stiamo allestendo schede e blob per rimettere in fila le posizioni e le promesse prese dai grandi protagonisti dell’attualità, che metteremo di fronte a ciò che hanno detto. Senza trappole o imboscate, solo riavvolgendo il filo della narrazione. Non avere memoria ci condanna a vivere in un eterno presente, ma la storia è maestra di vita e il ricordo deve aiutare l’Italia a crescere, a farsi paese maturo.
Passando a considerazioni più generali: qualche giorno fa, Enrico Mentana ha fatto notare la quasi totale assenza delle donne ai tavoli delle trattative, sostenendo che il mondo della politica è ancora maschilista. E quello del giornalismo politico?
Il nodo su cui dobbiamo ragionare è contare, non solo esserci. Le donne sono presenti ovunque, il racconto al femminile funziona, ma nei momenti in cui si giocano partite decisive, incredibilmente spariscono. Il Parlamento pullula di donne, ad ogni elezione ci sono sempre tante candidate, ma ai tavoli dei grandi sono assenti, perché non ricoprono cariche importanti. Mutatis mutandis, questo avviene anche nella sfera del giornalismo politico. Per me, cambierà realmente qualcosa quando due donne diventeranno direttrici del Corriere della Sera e del TG1. Moltissime sono le colleghe autorevoli, per le quali tuttavia alcuni luoghi precisi sembrano preclusi. Anche le donne, dalla loro, manifestano una certa ritrosia nei confronti del potere, come se fosse qualcosa di sporco, qualcosa da uomini. Al contrario, l’arrivo al potere delle donne, che per natura tengono insieme i pezzi e non spezzano legami, potrebbe contribuire a cambiare l’idea che si ha comunemente di autorità. Bisogna sporcarsi le mani e fare squadra. Ripeto sempre una frase di Madeleine Albright, anche sul lavoro: “C’è un posto speciale all’inferno per le donne che non si aiutano”.
A proposito di donne che contano, il mio collega Massimo Falcioni ha trovato molte caratteristiche comuni fra lei e Barbara d’Urso nello stile di conduzione. Che ne pensa?
Non ho nessuno snobismo nei confronti di Barbara d’Urso, è una professionista con una grande umanità e un’amica. Dopodiché, facciamo due televisioni diverse. Di comune c’è l’approccio con la testa e col cuore, che rivendico con orgoglio. Dentro al mio racconto ci sono le mie emozioni. Mi è successo di commuovermi davanti a storie forti, di operaie che raccontavano di aver perso il lavoro, davanti alla fabbrica chiusa. Conduco un programma quotidiano, reale, di due ore e mezza: se recitassi il ruolo della professionista austera senza emozioni, non farei un buon lavoro per il pubblico, uno zoccolo duro di telespettatori con cui si è creato negli anni un rapporto di grande lealtà, sia a livello di contenuti che di sentimenti. Non sono una giornalista impassibile, vivo ciò che racconto con tutta me stessa. La sincerità è stata la chiave del successo de L’Aria Che Tira.
E nell’economia complessiva del canale, è giusto proporre linguaggi diversi, per diversificare l’offerta.
Rischieremmo di diventare una all-news, mentre da noi le notizie non vengono lanciate a tamburo battente. A LA7 raccontiamo un grande romanzo popolare, ogni giornalista col proprio stile, con la propria impronta. Se scrivo un libro, lo faccio in maniera differente da Lilli Gruber, Corrado Formigli o Giovanni Floris. Io ci metto i miei sapori.
Ha menzionato le reti all-news. Al netto del successo de L’Aria Che Tira, si è mai lasciata attrarre da altre sirene, da altre aziende? Oppure ha in mente di mettersi in gioco con altre sfide per LA7?
L’impegno quotidiano con L’Aria Che Tira è molto gravoso. Col direttore Salerno abbiamo già deciso di fare alcune fuoriuscite in prima serata già prima di Natale, simili a quelle andate in onda alla fine della scorsa stagione. L’Aria Che Tira è nata come startup, una trasmissione partita da zero che oggi vede una squadra di professionisti importanti. Sta diventando una factory, e l’idea che possa produrre prime serate per me è importante. Rispetto alle altre proposte, sempre bene che ci siano, ma riconosco che lavorare per un editore puro, che chiede solo ascolti ed economia, senza pressioni sui contenuti e in piena libertà, è una fortuna.