Little Big Italy, la miglior gara tra ristoranti (e la migliore risposta alla retorica della fuga dei cervelli)
Little Big Italy sta per tornare in onda, ma vale la pena ricordare quel che più ci è piaciuto della prima stagione.
E’ già passato un anno dalla prima stagione di Little Big Italy, una piccola sorpresa nel palinsesto di Nove: a condurlo un volto poco noto per il circuito mainstream, Francesco Panella, che però ha da anni un programma su Gambero Rosso (Brooklyn Man) ed è soprattutto colui che ha portato il ristorante di famiglia, L’Antica Pesa, da Roma a New York. Una scelta perfetta per accompagnare i telespettatori alla ricerca dei migliori ristoranti italiani nella Grande Mela (e nelle grandi città USA).
Ho definito Little Big Italy la miglior gara tra ristoranti, pur amando profondamente Alessandro Borghese 4 Ristoranti: diciamo che sono le due facce di una stessa medaglia. Medaglia rigorosamente d’oro. Da una parte c’è il sapore del professionismo, con la gara anche puntuta tra ristoratori; dall’altra il gusto della malinconia, di chi coltiva il ricordo di casa sia in cucina che al tavolo. In più, restando alla gara, quella di Little Big Italy è particolarmente genuina, senza sovrastrutture, semplice nel suo meccanismo: un piatto scelto dallo sponsor, un piatto scelto dal ristoratore, un fuori menu di Panella. I tre piatti riescono a dare un ottimo quadro del palato dell’expat, della preparazione dello chef e della capacità di reazione della cucina: un ottimo panel. Un punto debole però c’è, ed è il palato degli expat: ci sono delle richieste e delle proposte che tradiscono la perdita della vera tradizione casalinga e il cambiamento di gusto che per chi segue da casa corrisponde a una carrellata di pugnalate al cuore. La scelta degli expat, quindi, meriterebbe un pizzico di cura in più, per evitare l’obbrobrio di una pizza all’ananas proposta come gran piatto tricolore.
Ma il vero valore di Little Big Italy è la capacità di raccontare le storie dei nostri emigranti, di chi ha lasciato l’Italia per trovare lavoro, per costruirsi una vita migliore, per portare altrove le proprie conoscenze, per inseguire un sogno, per necessità o per bravura, per desiderio di cambiar vita o per essere soddisfatti di sé. Un racconto senza presunzione, che però restituisce uno dei migliori spaccati sulla vera natura dell’emigrazione italiana, senza tutta la piagnucolosa retorica sulla fuga dei cervelli. C’è chi ha lasciato l’Italia sui piroscafi degli anni ’30 e ’40, chi è nato e cresciuto in America e vive l’Italia nei ricordi dei nonni, c’è il giovane che ha deciso di smetterla di sentirsi sfruttato in Madrepatria e ha pensato di vivere nella città che ha sempre sognato, chi ha deciso di mettersi in gioco e portare l’arte pizzaiola dei genitori nella Grande Mela, c’è l’ingegnere promosso, c’è lo studente, c’è chi è appena arrivato e chi ci vive da sempre. C’è di tutto, con un minimo comune multiplo, l’essere legati in qualche modo all’Italia.
Little Big Italy diventa così un diario minimo dell’emigrazione italiana, un diario asciutto e contemporaneo, senza concessioni alle ‘lacrime napulitane’, ma che riesce comunque ad emozionare proprio per la naturalezza di certe storie e per le capacità imprenditoriali dei nostri connazionali. Storie di cittadini del mondo, storie di lavoro e sacrificio: in ogni caso storie vere e semplici, uguali a tante altre, senza quell’alone roboante che accompagna spesso le ‘testimonianze’ dei già citati cervelli in fuga. Un ottimo saggio sugli expat di oggi e sull’emigrazione di ieri. Alla luce di quanto successo negli ultimi mesi in Italia, mi sembra anche un’ottima risposta a chi si oppone al Global Compact. Ma questa è un’altra storia.
Ci prepariamo, quindi, alla seconda stagione, al via lunedì 22 aprile 2019, Pasquetta, dalle 21.25 su Nove. Vedremo se qualcosa sarà cambiato. Speriamo di no…