Home Chi l'ha visto? Ercole Rocchetti a Blogo: “Chi l’ha visto? e l’importanza del giornalismo Open Source Intelligence. Sogno un programma mio”

Ercole Rocchetti a Blogo: “Chi l’ha visto? e l’importanza del giornalismo Open Source Intelligence. Sogno un programma mio”

L’intervista di Blogo a Ercole Rocchetti, documentarista, film-maker, giornalista d’inchiesta per Chi l’ha visto?

pubblicato 27 Luglio 2016 aggiornato 1 Settembre 2020 22:22

Continua l’appuntamento di Blogo con la rubrica Tv e l’altra cronaca/politica e, per quanto riguarda la cronaca, non potevamo che chiudere con uno degli inviati del programma cult di Raitre, Chi l’ha visto?, che da quasi 30 anni sa unire il giornalismo d’inchiesta e il servizio pubblico mietendo successi negli ascolti e nella critica. Tra i tanti giornalisti che collaborano con il programma la scelta è ardua, li vorrei intervistare tutti e scoprire da ognuno un punto di vista, un dettaglio, una sfumatura del loro lavoro e della trasmissione. La scelta, però, cade su Ercole Rocchetti, documentarista romano che arriva a far parte della squadra di Raitre sette anni fa, dopo alcune esperienze come redattore e autore per l’emittente CEI SAT2000, dopo una collaborazione come assistente alla regia accanto al grande Pupi Avati in due film per il cinema e dopo l’impegno come giornalista d’inchiesta e film maker per Exit, su La7. La sua esperienza sul campo, soprattutto all’estero, fornisce spunti davvero interessanti. Ercole – prima di approdare nella squadra di Chi l’ha visto? – ha infatti girato il mondo per realizzare documentari, alcuni dei quali hanno vinto importanti premi internazionali: nel 2006, grazie alla fotografia del filmato “Kimemia e i disabili mentali di Naiwasha”, ha vinto il Premio Ilaria Alpi sez. Miran Hrovatin; nel 2007 ha vinto il Premio del Pubblico al Docufest di Atlanta grazie al film documentario “Storia di Michela”, anche per lo scoop internazionale – ripreso dalle tv e dai Tg di quasi tutta Europa – del caso di una bambina rumena che viveva in una gabbia e che, proprio grazie a quel documentario, ha trovato una famiglia che l’ha adottata e le ha restituito una vita serena. Il suo ‘curriculum’ (“Parlo molto bene lo spagnolo e bene l’inglese”, ci spiega) lo porta quindi ad occuparsi per Chi l’ha visto? anche di casi di rilevanza internazionale: è lui che segue le tracce di Ilenia Carrisi a New Orleans, di Angela Celentano in Messico, delle gemelline Schepp in Canada e si occupa poi di alcuni casi in Spagna e in Albania. Sempre più spesso, purtroppo, i casi di scomparsa si trasformano in casi di cronaca nera: “Quando sono arrivato a Chi l’ha visto? pensavo che le storie di cronaca fossero tutte uguali. Invece mi sono reso conto che non è così, che quello che conta è sempre il modo in cui ci si approccia alle storie e come le si racconta, ho imparato molto lavorando qui”, mi dice Rocchetti, raccontandomi del suo approdo nella squadra di lavoro del programma di Raitre.

Come hai iniziato a muovere i primi passi in questo lavoro, in particolare quello di inviato?

Il mio è stato un percorso abbastanza tortuoso e variegato. Studiavo legge, ma in realtà sognavo fin da bambino di lavorare nel cinema. Scrivevo soggetti e sceneggiature che puntualmente restavano nel cassetto. Poi nel 2000 conobbi il regista Pupi Avati che mi propose di collaborare per lui, in alcuni programmi che produceva per la neo nata TV della conferenza episcopale italiana, SAT2000, oggi TV2000. Entrai così a far parte in maniera del tutto casuale di una redazione giornalistica. Inizialmente il mio approccio a questo mestiere fu tiepido, perché mi sembrava di limitare troppo la mia fantasia agli argomenti trattati. Ma, non appena cominciai ad affrontare tematiche sociali, mi resi conto che la realtà era molto più potente di tanta finzione e di come ognuno di noi poteva leggere e raccontare la stessa notizia, gli stessi fatti, in tantissimi modi diversi. Ci fu in particolare un episodio che segnò la mia carriera. In occasione della prima grande tragedia di profughi Africani a Lampedusa rimasi letteralmente folgorato da un’immagine che vidi sui giornali: su un barcone c’era la borsa aperta di una donna dalla quale uscivano fuori delle foto, dei pezzi di vita smacchiati dalla salsedine, volti di parenti, figli e amici che quella donna aveva portato con sè nella traversata. La sua sarebbe stata una delle migliaia di storie di disperazione, ma era “una” storia, che meritava di essere raccontata. All’epoca facevo l’autore di un talk show, e lavoravo in redazione. In quel caso chiesi alla produzione di farmi partire immediatamente per la Sicilia. Volevo toccare con mano quelle vicende e ne realizzai un lungo speciale. Sicuramente il mio mestiere di inviato cominciò allora. Era il 2002.

Poi cosa è successo? C’è stata qualche altra storia che ti ha colpito in quegli anni di lavoro a SAT2000?

In generale quei 7 anni nel gruppo di lavoro con Avati furono per me una grande palestra formativa e mi diedero la possibilità di prendere dimestichezza con il mezzo audiovisivo e di sperimentare. Feci un po’ di tutto, ma la cosa che ho amato di più sono state le esperienze sul campo, quelle in cui ho potuto affinare maggiormente le mie doti registiche e di racconto per immagini. In particolare le lunghe serie di documentari che ho realizzato all’estero, soprattutto quelli in Africa, in cui soggiornai per 4 mesi. Raccontai alcune incredibili storie di riscatto, di eroi quotidiani, che ogni giorno nelle più pericolose baraccopoli africane o nelle poverisime zone agricole combattono contro l’indifferenza della gente e delle istituzioni. Uno di questi documentari trattava la vicenda di Josphat Kimemia, un disabile keniano, affetto da poleomelite, che aveva creato un associazione per aiutare una categoria di disabili molto più sfortunata della sua: i disabili mentali. In Africa sono ancora oggi considerati una colpa dei loro antenati e nelle zone rurali vengono fatti vivere nei pollai legati ad una corda, al fine di nasconderli alla vista dei vicini. Quel filmato vinse il Premio Ilaria Alpi e venne proiettato in numerosi importanti festival internazionali.

Tra le tante inchieste e i casi che hai seguito nel corso di tanti anni di lavoro, ce n’è uno che ti è rimasto nel cuore?

Sicuramente la vicenda di Mariana, una bimba di due anni e mezzo che salvai da una morte certa. Era fine 2005 e mi trovavo nella arretratissima Moldavia Rumena per girare il documentario Storia di Michela, commissionato sempre da Avati per TV2000. Il personaggio principale della mia storia mi portò casualmente a casa di alcuni suoi parenti, dove mi imbattei in una scena agghiacciante. C’erano due anziani alcolizzati, che mi raccontavano che la loro figlia era andata in Spagna per prostituirsi e aveva lasciato loro la sua figlioletta. Purtroppo, però, dovendo loro badare ai campi e non ricevendo alcun aiuto dallo Stato rumeno, erano costretti e lasciarla per tutta la giornata in casa. A quel punto mi portarono in un’altra stanza dove c’era effettivamente una bambina bellissima di soli due anni e mezzo che era chiusa all’interno di una gabbia di legno, insieme ad un gatto, messo li “per proteggerla” dai topi. La bambina e il gatto mangiavano nella stessa ciotola. La situazione era drammatica e non si poteva perdere tempo, quella bambina stava morendo in mezzo alle sue feci e quei due vecchi erano completamente fuori di testa. Inizialmente non pensavo di fare entrare quella vicenda all’interno del mio documentario e denunciai la situazione a diverse Onlus di Bucarest che si occupavano di bambini maltrattati e persino ai colleghi delle tv rumene, a cui avevo fatto una copia del filmato. Ma nessuno fece nulla. Erano tutti terrorizzati all’idea di rovinare l’immagine della Romania all’estero, nell’ottica del loro ingresso in Europa. A quel punto, una volta tornato in Italia, decisi di montare le di mandare in onda la scena della bambina nella gabbia. Dopo poche ore fui inondato di chiamate da parte di altri colleghi. La sequenza fu ripresa da tutti i telegiornali europei, e molte televisioni, compresa la BBC, mandarono i loro inviati per giorni in quel villaggio desolato. L’allora Commissario Europeo per l’espansione Olli Rehn, dopo aver appreso del filmato, fece un’interrogazione al Parlamento Europeo per chiedere chiarimenti al governo rumeno sulle condizioni dei minori. Inutile dire che il documentario Storia di Michela vinse, fra gli altri, anche un importante festival di documentari ad Atlanta, ma la cosa di cui vado più fiero è che in pochi giorni giunsero più di 4000 richieste di adozione dagli stessi cittadini rumeni e Mariana, che oggi ha 13 anni, ha avuto finalmente il futuro che meritava. Questo dimostra quanto la televisione, se usata per scopi nobili, può essere davvero un mezzo capace di cambiare lo stato delle cose.

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Per Chi l’ha visto ti sei occupato spesso di casi in cui sono vittime minori, dalle gemelline Schepp al caso di Lorys Stival tanto per citarne solo due. Quanto è difficile mantenere la necessaria lucidità davanti a storie terribili che per giunta riguardano dei bambini?

E’ molto difficile riuscire ad essere equidistanti quando si ha che fare con vittime innocenti come i bambini. Da quando sono genitore, sono diventato molto vulnerabile da questo punto di vista. La vicenda di Lorys in particolare mi ha davvero segnato. Era poco più grande di mio figlio, e quando tutti noi cronisti eravamo fuori dalla scuola di Santacroce, ci rivedevo le facce dei compagni di classe di mio figlio, e persino il libro di testo che cercavamo nello zaino era lo stesso adottato da lui. Mi ha colpito in quella tragedia, la professionalità e la serietà dimostrata dalla Preside e dalle insegnanti, ma anche la maturità dei compagnetti di classe di Lorys, che da un giorno l’altro hanno dovuto conoscere la mostruosità della morte di un loro coetaneo. Della vicenda Shepp, non posso nemmeno immaginare il dolore e la disperazione provato da quella povera madre, a cui va tutta la mia solidarietà.

Hai seguito con grande determinazione gli ultimi sviluppi del caso di Angela Celentano, arrivando fino in Messico. Credi si arriverà mai alla verità su questo caso?

Non lo so. Fino a che non c’è stato il vertice Italia Messico del 2015, in cui si è parlato anche di Angela Celentano, le autorità Nord americane non avevano combinato assolutamente nulla. Il fatto che il Governo messicano abbia recentemente messo una taglia di circa 89 mila euro per avere notizie su Celeste Ruiz non è un bel segnale. L’impressione è che vogliano rispettare l’impegno preso con il Governo italiano ma non sappiano realmente che pesci prendere. Comunque quella foto a qualcuno deve appartenere. Nel profilo di Celeste Ruiz, prima che venisse cancellato, c’erano anche le foto di un’altra ragazza. In una in particolare si intravedeva il distintivo di una scuola del nord del Messico. Una volta individuata la scuola, volai lì per la seconda volta e rintracciai la ragazza in questione. Si chiama Jennifer e non aveva nulla a che fare con Angela Celentano. Qualcuno le aveva rubato a sua insaputa le foto dal profilo Facebook ed erano finite su quello della sedicente Celeste Ruiz. Staremo a vedere, ora, se almeno i soldi smuoveranno qualche coscienza.

Facendo sempre riferimento al caso Celentano, hai seguito egregiamente tutte le piste, non tralasciando neppure quelle di Facebook. Credi che i social network possano diventare sempre più utili nel giornalismo d’inchiesta?

Assolutamente sì. La ricerca sui social e sui motori di ricerca è un tipo di giornalismo che viene definito Open Source Intelligent, cioè tutte quelle fonti di informazione che si possono ricavare dalle fonti pubbliche come i social ma anche le notizie sul web. Questo rappresenta una grossa fetta del mio lavoro, specie quando tratto i casi internazionali. Prima dell’avvento di Facebook, non so come avremmo potuto sopperire ad una così grande banca dati e di immagini. Ad esempio, nel caso di Ivan Angelo Pegan, scomparso in Albania, trovai, grazie all’aiuto della sorella dello scomparso, decine di profili diversi, ma tutti con le stesse foto della donna che lo aveva raggirato e attirato a Tirana con la promessa di una relazione. Dopo il mio appello alle televisioni albanesi, le autorità locali hanno aperto un fascicolo di omicidio per la morte del nostro connazionale.

Hai seguito numerosi casi di scomparsa anche all’estero. Mi viene ad esempio in mente la tua trasferta in Canada per le gemelline Schepp…

Non ho seguito il caso dall’inizio, perché ero impegnato su altri fronti. Ma quando è arrivata la lettera anonima e circostanziata, che sembrava quindi vera – anche se io avevo dei dubbi che lo fosse – hanno subito pensato di mandare me, avendo già delle esperienze all’estero. Appena arrivato in Canada presi contatti con una importante trasmissione canadese, dove poi venni intervistato per qualche minuto. Raccontai la storia delle gemelline, che lì non era conosciuta, e il giorno dopo mi arrivarono qualcosa come 50 telefonate dai media del Canada, dalla radio alla carta stampata, mi chiamarono davvero tutti. Per almeno una settimana la notizia diventò quella principale in Canada: un giornalista italiano alla ricerca delle gemelline Schepp. Dopo quelle telefonate feci una serie di interviste, andai anche in una trasmissione in onda la mattina alle 7, simile al nostro Uno mattina, senza aver dormito perchè fino a poco tempo prima avevo lavorato per spedire il servizio in Italia per Chi l’ha visto?. In casi come questi sento davvero la responsabilità del mio lavoro di servizio pubblico. Stessa cosa quando sono partito per il Messico o per l’Albania, prendendo parte a programmi televisivi del posto per lanciare degli appelli.

La squadra di Chi l’ha visto è ormai rodata e composta da giornalisti di livello. Tra i tuoi colleghi c’è qualcuno da cui hai imparato qualcosa in più sul tuo lavoro, una volta che sei entrato a far parte del programma?

Sicuramente da Gianloreto Carbone ho imparato ad osare di più attraverso le parole e la voce, in quanto provenivo da Exit dove c’era un approccio più registico, in cui il predominio lo avevano le immagini e la voce degli intervistati. Il testo del giornalista era relegato a poco più di un collante tra i vari contributi. Invece Gianloreto è uno che può andare avanti anche per 20 minuti solo con la sua narrazione e con le atmosfere delle musiche da lui scelte. Di Pino Rinaldi apprezzo molto l’eleganza e i tempi del suo racconto. Da Federica Sciarelli ho preso l’immediatezza del suo messaggio, ma anche la sua attenzione alla forma espostiva. Mi spiego meglio: si può trattare anche la più cruda vicende di cronaca nera, senza per questo dover necessariamente usare espressioni trash o immagini dirette.

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Perché la cronaca nera in tv piace così tanto?

La cronaca nera interessa gli italiani molto più della politica. Se ci pensi la notizia di un imprenditore fallito che si dà fuoco interessa mezza giornata, mentre della morte di una ragazza uccisa dal fidanzato se ne parla per tre – quattro mesi. È strano, no? Ci ho ragionato e credo che la gente si appassioni al mistero, voglia sentire i problemi fuori casa sua ed esorcizzarlo. Credo sia questo il segreto del successo della cronaca nera in Italia. Si può ad esempio riflettere che lo stesso successo, la cronaca nera, non lo ha all’estero. Per lavoro ho viaggiato tanto, anche prima di Chi l’ha visto?, e ho visto che la cronaca nera è un settore di nicchia, ci sono paesi dove questo tipo di trasmissioni nemmeno esistono.

Arrivi a Chi l’ha visto dopo il giornalismo d’inchiesta per Exit, su La7. Che ricordo hai di quegli anni e della trasmissione?

Sulla carta eravamo un grandissimo gruppo. Un’ottima conduttrice come Ilaria D’Amico, un estroso capo progetto come Alessandro Sortino e tanti bravi professionisti, alcuni dei quali oggi sono a Report e altri sono passati a Piazza Pulita. Ad Exit c’era anche una squadra di film-maker e montatori tra le migliori in Italia. Con noi lavorò nella prima fase anche il montatore de La Grande Bellezza Cristiano Travaglioli. Il programma cercava di coniugare il linguaggio della docu e cinematografico, con quello del giornalismo d’inchiesta. E’ stata però una scommessa vinta a metà. Quando sono state affrontate tematiche forti e d’attualità come il terremoto dell’Aquila, gli ascolti sono stati molto elevati, diversamente il programma si è assestato nella media dei programmi della7. E’ stata comunque sicuramente un’esperienza interessante e all’epoca molto innovativa. Ricordo che proprio durante il terremoto dell’Aquila rimasi tra le scosse per circa due settimane consecutive, dormendo in macchina per paura di possibili crolli. una sensazione terribile.

Cosa aggiungeresti o toglieresti a un programma di cronaca e attualità se fossi autore?

Io ritengo che ogni programma abbia un suo pubblico altrimenti non esisterebbe e ogni segmento di pubblico abbia uno specifico programma di riferimento. Non credo quindi che esista una regola universale su come approcciarsi alla cronaca. Si può piangere, si può ridere e avere momenti di leggerezza, purché non ci si dimentichi mai il rispetto per coloro che stanno subendo un dramma.

Quali sono per te le tre regole da seguire per essere un buon inviato?

Innanzitutto l’onestà. Bisogna sempre dire la verità, anche a costo di contraddirsi e di abbandonare la pista di cui ci eravamo innamorati. Il pubblico alla lunga lo apprezzerà e ne acquisteremo in termini di credibilità. Secondo, l’organizzazione del lavoro. bisogna leggere meticolosamente le carte dell’inchiesta, conoscere bene la vicenda per poi pianificare le interviste o gli aspetti da trattare e le immagini da girare. Spesso i tempi sono strettissimi, la concorrenza è agguerrita, e solo una buona esperienza, unita ad una grande organizzazione, ti consentono di portare a casa un buon prodotto in poco tempo. Infine, la curiosità: bisogna lavorare tanto sul campo senza finalizzare il nostro lavoro soltanto a quello che possiamo “registrare” o girare sul momento. Non sopporto quando certi colleghi sono appena atterrati con l’aereo e già si sono fatti un’idea su quello che racconteranno nel servizio. Niente di più sbagliato. Occorre invece lavorare tanto sul campo, stringere rapporti con la gente, saper ascoltare, anche le persone apparentemente irrilevanti. Proprio la scorsa settimana nel servizio su Irene Focardi ho tirato fuori un’intervista inedita ad un uomo che avevo registrato più di un anno fa. All’epoca quel tizio non mi disse un granché, ma avevo capito che mentiva. Proprio durante il processo è emerso invece che sarebbe stato l’unico ad aver visto il presunto assassino mentre trasportava il cadavere della povera donna con un carrello. L’uomo oggi è morto, ma quando lessi il suo nome tra le carte, mi ricordai di averlo intervistato e l’ho potuto tirar fuori. Questo per dire che quello che vedete in onda è solo una minima parte del lavoro che c’è dietro.

C’è un limite che non deve essere superato?

Gli ascolti sono importanti, ma ritengo che il rispetto umano lo sia di più. In certe situazioni dovremmo imparare tutti a fermarci. Devo dire che in questo Federica Sciarelli è molto attenta alla deontologia professionale e molto rispettosa nei confronti dei familiari che si rivolgono a Chi l’ha visto? Posso dirti che per me è più semplice incalzare un criminale, nonostante i pericoli a cui posso andare incontro, piuttosto che bussare alla porta dei familiari di una vittima che chiedono rispetto per il loro dolore. E’ successo tante volte, ad esempio con i genitori di Yara o recentemente con i familiari di Sara Di Pietrantonio: io non ho nemmeno provato l’approccio. Eppure altri l’hanno fatto.

Quanto è importante la sintonia con il conduttore della trasmissione?

In passato, quando facevo l’autore, mi è capitato di non andare d’accordo con una conduttrice, ma alla fine dopo un po’ di tira e molla, riuscivamo comunque a portare a casa la puntata. Nel caso di Chi l’ha visto, invece, la conduttrice non è solo la persona che ci mette la faccia ma è anche l’autrice e il capo progetto del programma. Quindi almeno per il mio modo di essere, sarebbe impossibile lavorare in un contesto come Chi l’ha visto, se non ci fosse della stima reciproca. Con Federica ci sentiamo spessissimo per confrontarci e aggiornarla e farle delle proposte. Ho lavorato con diversi conduttori e non è affatto scontato che ci sia questo scambio. Poi è chiaro che le decisioni e la linea editoriale le decide lei. Ma è normale che sia così.

Quanto margine di autonomia ha un inviato?

Nel mio caso parecchia. Qualsiasi conduttore o autore che è stato anche inviato, sa perfettamente che le consegne date in redazione, si rivelano spesso infattibili o inutili, una volta sul posto. Pertanto, chi viene designato per un determinato servizio deve avere necessariamente una grossa autonomia. Del resto se non ci fosse fiducia, farebbero partire qualcun altro. La linea editoriale subentra semmai una volta al montaggio. Anche se devo dire che ho sempre avuto molta autonomia di scrittura e registica.

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Come ci si regola se un inviato dissente rispetto a una scelta editoriale?

A volte può capitare di avere punti di vista diversi. In quei casi cerco sempre di difendere le mie convinzioni fino in fondo, ma poi bisogna comunque accettare le scelte di chi ha la responsabilità del programma.

Questo tipo di lavoro porta spesso a stare lontani da casa. Quanto è difficile conciliare carriera e vita privata?

E’ molto difficile trovare il giusto compromesso, ma non impossibile. Dipende dalla pazienza e dall’intelligenza di chi ci sta accanto ma anche dalla nostra capacità di saper gestire il proprio tempo. Io per esempio lavoro molto anche da casa e parto solo per girare lo stretto necessario. L’esperienza in questo mi aiuta molto. Ma in generale, tornando alla tua domanda, vedo tanti colleghi che hanno fatto delle scelte precise o si sono ritrovati a puntare tutto sul lavoro, non riuscendo ad instaurare storie durature. Del resto questo è un mestiere fantastico dove conosci gente ovunque ti trovi e hai la fortuna di vedere posti bellissimi; ma appena si spengono i riflettori e ti capita di cenare da solo in un albergo sperduto, cominci a porti alcune domande. Quand’ero più giovane, mi capitava di restare fuori all’estero anche per mesi. Il mio futuro lo vedevo così, sempre in viaggio e senza una famiglia. Poi nel corso degli anni la maturità professionale mi ha fatto vedere le cose in maniera completamente diversa. Oggi il mio lavoro continua ad essere la mia più grande passione, ma riesco a farlo conciliare benissimo anche con le mie esigenze familiari. Ho due figli meravigliosi, che vorrei continuare a veder crescere, una moglie che mi sopporta e che fortunatamente fa un mestiere totalmente diverso dal mio, e una piccola attività imprenditoriale parallela. In particolare ritengo che l’esperienza della paternità non abbia tolto nulla al mio lavoro, ma anzi abbia arricchito il mio bagaglio emozionale e narrativo. Non potrei raccontare fino in fondo le storie drammatiche che affronto, se fossi solo saltato da un aereo all’altro, senza vivere una mia quotidianità. Chi non ce l’ha rischia di perdere il contatto con la realtà e di identificare la propria vita solo con le vicende di cronaca.

Che consiglio daresti a un giovane che vuole intraprendere questo lavoro?

Bisogna avere tanta pazienza, tanta perseveranza e soprattutto tanta passione. Dio solo sa quante porte in faccia ho preso io ad inizio carriera. Ma non mi sono mai buttato giù. La stessa domanda me la fecero ad un corso di Videoreporter che tenni alcuni anni fa. Avevo 25 allievi tutti molto motivati e capaci, ma a molti di loro è mancata la fiducia nei propri mezzi e la costanza. Io ho avuto la fortuna di imparare questo mestiere sul campo, confrontandomi con dei professionisti, ma mi rendo conto che non tutti hanno quest’opportunità. Tuttavia rispetto agli anni in cui ho cominciato io, oggi ci sono altri mezzi per fare esperienza e farsi conoscere, come i canali youtube e i social network che possono diffondere il lavoro dei reporter indipendenti.

Come si gestisce al meglio un problema tecnico del collegamento?

Non mi sono mai capitati grossi problemi tecnici durante un collegamento, ma è anche vero che non ho una grandissima esperienza di dirette. In vita mia ne ho fatte in tutto una quindicina, ed una cosa che devo ancora migliorare. Recentemente sono stato collegato, ma in qualità di ospite con la tv spagnola, per parlare di Ylenia Carrisi e per tutto il tempo ero sprovvisto di monitor e quindi capivo che parlavano con me solo dall’auricolare, che peraltro si sentiva malissimo. Ma alla fine me la sono cavata più che bene.

L’inviato deve mantenersi equidistante o può lasciar trapelare il proprio punto di vista?

L’inviato a mio avviso deve necessariamente avere un proprio punto di vista. I suoi occhi e la sua voce sono il tramite tra i fatti e lo spettatore che sta a casa, altrimenti saremmo solo un mattinale della Procura e delle forze dell’ordine. Tuttavia l’inviato deve comunque raccontare i fatti in maniera genuina e imparziale. I due concetti possono sembrare agli antipodi ma non è così. Feci la stessa domanda all’inizio della mia carriera a Pino Scaccia, storico inviato di guerra del TG1, e lui mi rispose che anche con una notizia nuda e cruda puoi far trapelare un commento. E mi citò questo esempio: se racconto che i serbi hanno ucciso una bambina croata ha una valenza peggiore rispetto a dire, i serbi hanno ucciso una bambina croata in rappresaglia all’uccisione di una bambina serba. In generale, prima di prendere una posizione e di farmi un’idea, valuto bene le carte e le interviste che ho raccolto. Mi è successo con Salvatore Parolisi, appena scoperto l’omicidio di Melania Rea. Nel corso del primo servizio, lo trattai come una vittima, convinto dalle interviste sincere di alcune amiche della coppia. Solo una settimana dopo mi sono dovuto ricredere alla luce delle mie personali indagini e ho aggiustato il tiro. In entrambi i casi il mio punto di vista è emerso chiaramente, ma i fatti riportati erano sempre gli stessi.

Esiste la competizione sul campo tra colleghi?

Sì assolutamente, negarlo sarebbe da ipocriti. Si creano però anche tante bellissime amicizie, “crossmediali” direi. Anche perché a seguire la cronaca nera in Italia siamo sempre gli stessi, che sia tv o carta stampata. E quindi capita spesso di ritrovarsi in varie parti dell’Italia. Ho molta stima di alcuni colleghi, di altri un po’ meno. ma questo è normale in tutte le professioni.

Per chiudere e salutarci, hai mai pensato a un programma tutto tuo? C’è qualcosa che sogni per il tuo futuro professionale?

Sì, ci sto pensando da un po’. Mi piacerebbe un giorno condurre un programma di inchieste dal respiro internazionale e direttamente per il mercato estero. Per il momento è solo un progetto, il resto è top secret.

Chi l'ha visto?