Campo Dall’Orto: “Compito Rai è alfabetizzazione digitale. Sperimentare rischiando ascolti è dovere morale”
Il nuovo dg della Rai non si sbilancia sui palinsesti ma annuncia un omaggio a Camilleri il 6 settembre
Il nuovo direttore generale della Rai, Antonio Campo Dall’Orto, ha concesso una lunga intervista a Il Foglio nella quale ha manifestato le sue idee e i suoi intendimenti a proposito della tv pubblica. L’ex numero uno di Mtv e di La7 ha spiegato che serve discontinuità:
Quando parlo di ‘discontinuità’ per la Rai, parlo di un concetto semplice che riguarda in modo profondo questa azienda. L’impressione è che la Rai, e questo accade ormai da ormai molti anni, sia costantemente rimasta due passi indietro rispetto alla velocità della società. La prima missione del direttore generale non può che essere questa.
In concreto, ha spiegato Dall’Orto, significa che la Rai deve andare oltre il mero schermo televisivo:
Dobbiamo trasformare la Rai da broadcast a media company. Dobbiamo portare avanti un grande progetto di digitalizzazione culturale dell’azienda Rai per permetterle di diventare un riferimento rispetto ai comportamenti e ai linguaggi contemporanei.
Cioè, la tv pubblica non più come strumento di pedagogia ma di alfabetizzazione digitale:
È così, e lo è per una ragione elementare: non si può pensare che il compito centrale del servizio pubblico sia quello di affermare e diffondere un linguaggio primario; il compito vero oggi è quello di accompagnare le persone in un nuovo mondo provando non a diffondere un normale e ormai stra conosciuto alfabeto ma provando semmai ad anticipare una nuova forma di alfabetizzazione.
Dall’Orto ha proseguito con un esempio, la fiction:
In tutto il mondo si è capito che il linguaggio scritto della fiction televisiva è stato uno dei grandi elementi di vitalità creativa che ha consentito agli editori tv di mantenere il proprio ruolo e all’industria dei contenuti di affascinare il proprio pubblico con un racconto via via più complesso. In Italia spesso si è scelto un metodo diverso, sia sui contenuti sia sulla distribuzione. Il tuo lavoro non può finire quando hai finito il prodotto ma diciamo che quando hai finito il prodotto sei solo a metà dell’opera. Per essere chiari: lei si rende conto che su 13 mila dipendenti in Rai non abbiamo una direzione che si occupi della distribuzione del prodotto digitale?
Insomma, serve una Rai pop, la cui priorità sia “quella di trovare e sperimentare un nuovo tipo di linguaggio capace di essere al passo con i cambiamenti della società“:
Essere pop, dal mio punto di vista, vuole dire essere in sintonia con la contemporaneità e vuol dire soprattutto pensare che le persone a cui la Rai deve parlare non sono solo quelle che oggi già vedono la Rai ma sono anche tutti coloro che per qualche motivo hanno deciso di non seguirci più. Spesso, l’errore di impostazione che si fa in un’azienda come questa è pensare che ci sia uno zoccolo duro di telespettatori che comunque andranno le cose ci sarà sempre – e in virtù di questo ragionamento tarare i propri messaggi non verso coloro che si vogliono conquistare ma verso coloro che non si vogliono perdere
Non dico che non sia importante non perdere pubblico ma dico che la Rai deve entrare in una nuova ottica, più inclusiva. Deve sperimentare un nuovo racconto popolare in cui non si ha paura di spiegare a chi guarda i nostri canali che i miti di un tempo non sono miti assoluti ma sono miti che vanno accostati a quelli più moderni. E un Usain Bolt, anche dal punto di vista della presa sulla nostra società, non può essere raccontato con l’idea che sia ‘il nuovo Carl Lewis’ ma va immerso nel racconto degli eroi dello sport di oggi. Ma per poter evitare questo cortocircuito, ed evitare che la Rai parli sempre alle stesse persone, è ovviamente necessario, anche qui, uno scatto di reni generazionale.
Le aziende editoriali, si sa, quando comunicano raccontano in primis sé stesse, e solo attraverso il proprio filtro riescono a raccontare la realtà esterna. E mi pare ovvio che, in un’azienda che vuole conquistare i trentenni, se le persone sotto i trent’anni sono 200 su 13 mila dipendenti qualcosa debba cambiare con urgenza.
Capitolo ascolti. La Rai deve inseguirli, anche a discapito della qualità dei contenuti?
Se questa fosse un’azienda privata tutte le nostre energie dovrebbero essere concentrate su come fare più soldi e a come trasformare ogni singolo minuto di programmazione in uno spazio potenzialmente utile per poterlo vendere a un inserzionista. La Rai non è una televisione commerciale ma è un servizio pubblico e in nome di questo principio prendere qualche rischio con gli ascolti non è un’opzione ma è parte della propria missione, quasi un dovere morale.
Intendimento coraggioso, che potrà essere messo nero su bianco quando nel 2016 dovrà essere rinnovata la convenzione tra la Rai e lo stato per le trasmissioni del servizio pubblico:
In quell’occasione andranno anche ridefiniti gli obiettivi. E se la nuova convenzione dovesse avere al centro la necessità per la Rai di essere la fonte primaria dell’alfabetizzazione digitale e culturale del nostro paese il fine ultimo sarebbe questo e non più il solo dato degli ascolti del giorno precedente.
Dall’Orto ha assicurato che “per quanto riguarda la spending review continuerò a muovermi nel solco importante tracciato dal mio predecessore Gubitosi, sapendo che ogni soldo risparmiato sarà un soldo che verrà investito nella nostra azienda per sviluppare nuovi contenuti“. A proposito dei palinsesti ha fatto notare:
Mi sento come quegli allenatori che arrivano a inizio stagione con una squadra già messa in piedi da qualcun altro. Da qui a fine anno il prime time è tutto programmato e da qui alla prossima primavera anche il day time è già incardinato. Diciamo che tra marzo e maggio ci sarà lo spazio per cominciare a disegnare una Rai più simile a quella che immagino.
Qualche esperimento però sarà introdotto da subito. A partire dall’omaggio ad Andrea Camilleri (l’anno scorso ci pensò Rai1):
Abbiamo pensato di celebrarlo con un piccolo omaggio cambiando la punteggiatura di tutti i nostri canali nel giorno del suo compleanno, il 6 settembre.
Infine, sul modello di talk show che secondo il nuovo dg funziona:
Poche persone che parlano, molti punti di vista differenti, molte conversazioni a due, anche solo con il conduttore. Con un unico fil rouge: quello di fare informazione per permettere a chi sta guardando non di indignarsi o di eccitarsi ma di imparare qualcosa di più. I talk, nel mio modo di vedere, devono riuscire a far confrontare idee diverse in modo comprensibile. Ed è ovvio che l’unico modo per valutare la bontà di un prodotto, almeno in un primo momento, è un criterio soggettivo più che oggettivo.