The Handmaid’s Tale 2, la recensione in anteprima Blogo
La recensione in anteprima Blogo di The Handmaid’s Tale 2, seconda stagione della serie evento con Elisabeth Moss, disponibile su TIMvision dal 26 aprile
Le seconde stagioni di quelle serie tv che al debutto hanno superato la critica televisiva diventando dei fenomeni di discussione sociale, sono sempre molto attese e molto temute. Da i fan, da una parte, che temono che il troppo successo possa avere dato alla testa; e dagli autori stessi, dall’altra, il cui confronto con quanto fatto l’anno prima rischia di schiacciarne la creatività. Anche The Handmaid’s Tale deve affrontare questo ostacolo: la seconda stagione della serie evento del 2017, che TIMVision propone da giovedì 26 aprile, a meno di 24 ore dalla messa in onda negli Stati Uniti, si trova di fronte ad una sfida ancora più ardua di quella della prima stagione, che consisteva nel portare sul piccolo schermo l’adattamento del celebre romanzo del 1985 di Margaret Atwood.
Dov’eravamo rimasti?
Un breve riassunto delle puntate precedenti: in un futuro distopico in cui gli Stati Uniti non esistono più ed al suo posto esiste il regime totalitario di Gilead, guidato da estremisti religiosi, la giovane DiFred (Elisabeth Moss) è un’ancella, ovvero una delle poche donne rimaste ad essere fertili e capaci quindi di dare un futuro alla specie umana.
DiFred, ed in generale le Ancelle vivono al servizio dei loro padroni, con cui sono costrette ad accoppiarsi solo la stretta osservazione delle loro moglie. Una volta rimaste incinte, le ancelle danno alla luce il figlio, che viene tolto loro ed affidato alla coppia.
Nell’ultima puntata della prima stagione, dopo aver scoperto di essere incinta, DiFred viene trasportata dalle autorità in un furgone nero, senza sapere nè lei nè le persone con cui vive, il Comandante Waterford (Joseph Fiennes) e la moglie Serena Joy (Yvonne Strahovski), dove sta andando.
The Handmaid’s Tale 2: benvenuti nelle Colonie (ma anche…)
La seconda stagione non perde tempo nel rivelare dove vada a finire Difred/June. Ovviamente, evitiamo di entrare nei dettagli, ma i nuovi episodi della serie di Hulu oltre a proseguire il racconto della protagonista espandono lo sguardo anche su altri luoghi di cui abbiamo sentito parlare nella prima stagione, come le Colonie, i posti in cui vengono condannate a lavorare a diretto contatto con le terre contaminate dalle radiazioni le “non-donne”, ovvero coloro che non riescono a procreare o che sono definite “traditrici di genere”, come le lesbiche.
Mentre il pubblico cerca di capire quale sarà il futuro di DiFred, della sua ricerca del compagno Luke (O.T. Fagbenle), della figlia Hannah (Jordana Blake) e del bambino che porta in grembo, i tredici episodi (tre in più rispetto alla prima stagione) regalano nuovi flashback, non più solo sulla protagonista, ma anche su DiGlen/Emily (Alexis Bledel), il che la fa diventare molto più importante all’interno della trama della serie.
Non solo: la seconda stagione introduce un personaggio che chi ha letto il libro conosce molto bene, ovvero la madre di DiFred, interpretata da Cherry Jones. Una femminista convinta, che nel romanzo ha un ruolo chiave in alcuni flashback della protagonista. Scopriremo, inoltre, anche il Comandante Joseph Lawrence (Bradley Whitford), mente economica di Gilead, uomo a tratti gentile ed a tratti dall’umorismo subdolo.
Non mancherà, infine, la perfidia di zia Lydia (Ann Dowd), a cui tutte le ancelle devono obbedire senza se e senza ma. Gilead, insomma, è più forte che mai, ma anche la convinzione di June (abituiamoci a chiamarla così) che nulla è perduto.
The Handmaid’s Tale 2: femminismo? No, attivismo
La seconda stagione di The Handmaid’s Tale è stata girata nei mesi in cui in America esplodeva lo scandalo Weinstein ed il movimento Me Too diventava di rilevanza mondiale, tanto da essere considerato “persona dell’anno” da Time. Le storie di violenze, abusi e discriminazioni nei confronti dell’universo femminile non hanno intaccato lo spirito della serie.
Dall’essere volutamente femminista (e necessaria proprio per questa sua propensione sbattere in faccia al pubblico un futuro in cui, però, le torture sono quelle del nostro passato e presente), The Handmaid’s Tale diventa attivista: non importa il genere di appartenenza, quello che conta è combattere, far sentire la propria voce e distruggere chi vuole schiacciare ogni libertà.
Dopo una prima stagione che stordisce come una sberla, la seconda stagione si “serializza” e crea un universo sempre più vasto, capace di allontanarsi dal libro da cui è tratto (d’altra parte, il finale della prima stagione coincide con parte del finale del romanzo) e di vivere di vita propria senza tirare troppo la corda.
Il mondo di The Handmaid’s Tale non è come quello dei Sette Regni di Game of Thrones, per intenderci: l’attaccamento ad una realtà immaginata ma purtroppo ancora possibile non viene messo da parte, e questo rende onesta ma al tempo stesso ambiziosa una serie che più di qualsiasi altra si è trovata di fronte a dover raccontare un mondo di finzione in cui le protagoniste non sono mai state così vicine alle paure di oggi.
Elisabeth e Margaret, le due boss di Gilead
Se lo showrunner della serie è un uomo, Bruce Miller, dietro The Handmaid’s Tale ci sono due donne: una è la stessa Elisabeth Moss, che oltre ad essere protagonista e vincitrice di un Golden Globe e di un Emmy Award è anche produttrice esecutiva dello show. L’altra, invece, è Margaret Atwood, autrice del libro da cui è tratta la serie, nelle vesti di consulente creativa. “E’ la nostra stella cometa, come sempre”, rassicura Miller: anche luoghi da lei poco esplorati nel libro, come le Colonie, nella serie trovano spazio seguendo anche le sue indicazioni. La migliore garanzia per una serie di fronte ad un grande sfida.