Home Notizie Conte 1 e Conte 2, da brutto anatroccolo a cigno. La tv e la metamorfosi del premier

Conte 1 e Conte 2, da brutto anatroccolo a cigno. La tv e la metamorfosi del premier

Il Conte di ieri e di oggi, due figure lontanissime a livello comunicativo. Lento e impacciato con Salvini e Di Maio, forte e sicuro di sé nel governo bis. Col coronavirus che gli ha regalato definitivamente la scena

pubblicato 14 Aprile 2020 aggiornato 30 Agosto 2020 03:19

Eri così, adesso sei così”. Come ne Il brutto anatroccolo, dove i partecipanti venivano messi davanti alla trasformazione avvenuta e, di fronte allo svelamento, mostravano spaesamento e sorpresa.

Accadrebbe anche a Giuseppe Conte se qualcuno gli mostrasse i suoi esordi televisivi. Da Carneade della politica a capo del governo, ma soprattutto da leader pressoché trasparente a uomo di punta della fase storica più traumatica degli ultimi settant’anni. Tutto in meno di due anni.

Inizialmente proposto come ipotetico ministro della pubblica amministrazione in un immaginario esecutivo guidato da Luigi Di Maio, Conte ne sarebbe divenuto il principale rappresentante alla fine della primavera del 2018, quando Cinque Stelle e Lega siglarono il provvisorio matrimonio. Costretto a rinunciare all’incarico il 27 maggio (ricordate Cottarelli al Quirinale col trolley?), rispuntò dal nulla due giorni dopo. In quelle ore convulse fu Paolo Celata del Tg La7 a riconoscerlo e ad inseguirlo per i vicoli di Roma. Conte non aprì bocca fingendo una conversazione telefonica. L’avrebbe fatto poche ore dopo in occasione del giuramento assieme ai suoi ministri.

Lento e impacciato, il capo del governo sembrava ‘telecomandato’. Come quando alla Camera, a microfoni aperti, perse gli appunti durante la richiesta della fiducia. Per non parlare dell’amnesia sul nome del fratello di Sergio Mattarella – Piersanti – definito “un congiunto”.

Conte c’era, ma per gli italiani era come se non ci fosse. Nei talk show ci andavano Salvini e Di Maio, con il primo che, soprattutto in tema di sbarchi e immigrazione, riusciva a prendersi tutte le luci del palcoscenico.

Spesso quarta notizia nei lanci del telegiornale e corpo estraneo per la satira (Crozza lo ribattezzerà ‘cameriere’ dei suoi vicepremier), il presidente del consiglio parlava col contagocce. Appena tre le uscite in tv nei primi dieci mesi di mandato, una da Floris e due da Vespa, di cui una a Porta a Porta interamente dedicata al rapporto con Padre Pio da Pietrelcina.

Qualcosa cambia nel febbraio 2019. Piazzapulita svela un fuori onda tra Conte e Angela Merkel al vertice di Davos: “Angela, non ti preoccupare, sono molto determinato. La mia forza è che se io dico ‘ora la smettiamo’, loro non litigano”.

E’ la prima svolta. Il premier diventa probabilmente consapevole del suo peso e il presunto danno mediatico si trasforma in punto a favore. Una sorta di ‘qui comando io’ che comincia a farsi largo gradualmente, fino al 3 giugno 2019, giorno del primo, chiaro avvertimento nel pieno della rissa tra grillini e salviniani: “Non mi presto a vivacchiare, sono pronto a rimettere il mio mandato nelle mani del presidente della Repubblica”.

In estate succede quello che sappiamo. Tra Papeete, liti sul Tav  e comizi balneari,  il governo si sbriciola a ferragosto. Salvini è convinto di avere in mano la situazione, invece è Giuseppi a sfangarla. Ricevuto l’elogio di Trump, Conte va al Senato e striglia il leghista a reti unificate: “Caro Matteo, questo governo ha lavorato tanto, non era in spiaggia. Se vuoi la crisi ritira i ministri. Se ti manca il coraggio politico, me lo assumo io davanti al Paese che ci sta guardando. L’azione del governo si arresta qui”.

E’ il punto di rottura. Non solo perché nascerà il Conte bis con alleati che vanno in direzione opposta ai precedenti, ma soprattutto perché il presidente ci prende gusto e, senza più i due ingombranti vice, diventa l’effettivo garante mediatico del governo ‘giallorosso’.

Le ospitate in tv triplicano e persino i round con Le Iene sul caso Alpa diventano motivo di rafforzamento – a torto o a ragione – della propria autostima.

L’avvio del 2020, di fatto, coincide con l’ingresso in scena del coronavirus. Prima minimizzato negli studi di Otto e mezzo il 27 gennaio (“Siamo prontissimi, l’Italia in questo momento è il Paese che ha adottato misure cautelative all’avanguardia rispetto agli altri”), poi ingigantito nella domenica più pazza dell’anno (23 febbraio). In camicia e maglioncino, Conte si collega dalla sede della Protezione Civile e bussa alla porta di ben cinque trasmissioni nell’arco di altrettante ore: Domenica In, Mezz’ora in più, Live-Non è la D’Urso, Non è l’Arena Che tempo che fa.

E’ la fase zero, quella che anticipa la firma del primissimo Dpcm (1° marzo). Nel mezzo si tenta un mezzo dietrofront, nel timore di aver gonfiato eccessivamente la questione. E’ solo un’illusione, perché il 4 marzo con un altro decreto tutti gli italiani vengono confinati nelle loro abitazioni. Gli annunci avvengono a notte fonda e in seguito si opterà per un orario di massima affluenza: quello dell’access prime time.

Mai puntuale, Conte alimenta ritardi e, al contempo, tanta curiosità. Le trasmissioni lo attendono, i game show del preserale saltano, i telegiornali si allungano. In cambio, il premier regala titoli, frasi a effetto: “Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci con più calore, per correre più veloci domani”.

Ma siccome ‘sta mano po’ esse piuma e po’ esse fero’, ecco l’altra faccia della medaglia. Nel giorno di venerdì Santo, Conte sbrana Salvini e Meloni, con l’accusa di essere dei mentitori in merito alla vicenda del Mes: “Questo governo non lavora col favore delle tenebre”. Sguardo severo, indice puntato e sicurezza scenica di un veterano. Ad ascoltarlo un Paese intero che, tra adulatori e detrattori, si accorge di non imbattersi più in una comparsa.

Il figurante s’è preso il ruolo da protagonista. Altro che cameriere.