A tutto Gialappa’s: “La tv non rischia più. Con Sky accordo saltato due volte. Nel 2015 il momento più difficile”
Gialappa’s Band, Marco Santin a Blogo: “Nel 2006 ci accordammo con Sky, ma la Juve retrocesse in B e il progettò sfumò. Gli inizi con Aldo, Giovanni e Giacomo furono difficili, Ale e Franz con noi hanno reso meno di quanto meritassero. Il film? Eravamo avanti”
Sono le voci più inconfondibili della tv. Voci che però mancano dal piccolo schermo da oltre due mesi. Un’assenza pesante quella della Gialappa’s Band che, a causa dell’emergenza coronavirus, è stata costretta a tirare il freno.
“Non so quando torneremo a Le Iene, non ne ho la più pallida idea”, confida a TvBlog Marco Santin. “Abbiamo un contratto, in teoria scadrebbe a giugno, ma non avendo realizzato delle puntate potrebbe esserci una proroga. Non lo sappiamo davvero”.
Prima la sparizione del pubblico in studio, poi la sospensione dello show. Infine il ritorno, con la formula della conduzione al tavolo affidata ai tre inviati. L’allontanamento momentaneo di Santin, Taranto e Gherarducci è stato tanto graduale quanto inevitabile, all’interno di un universo televisivo che in brevissimo tempo ha stravolto toni, palinsesti e scalette.
“Cazzeggiare in questo periodo? Dipende da come lo fai – spiega Santin – provare a ridere di tutto è indispensabile per vivere, ma pure il cinismo divertente a volte è stridente. Capisco che non sempre la missione riesca. Se si oltrepassa il confine, una battuta può diventare fuori luogo. E quel confine è molto sottile”.
Trentatré virgola tre per cento del gruppo, Marco racconta i mesi del lockdown svelando sentimenti inediti di paura ed angoscia. “Ho vissuto momenti tosti, difficili. Ebbi una leggera febbre, proprio agli inizi dell’emergenza. Mi sono isolato da tutti per quindici giorni. Poi la febbre è sparita, ma persone che conoscevo bene si sono ammalate e miei parenti del Veneto sono morti. Non ho potuto né salutarli, né omaggiarli. Non erano nemmeno anziani, volendo dirla tutta. In quel frangente vedevo l’epilogo molto lontano. Finiremo nei libri di storia, non credo ci fosse persona al mondo che potesse immaginare una situazione del genere”.
In questa fase di restrizioni a livello produttivo, sarebbe stato interessante e vantaggioso mettere in piedi un programma di semplice commento al ricco materiale sfornato dai social.
“Mi fa piacere che tu dica questo. Gli spunti per le prese in giro ci sono. Personalmente, ho provato a costruire qualcosa su Instagram raccogliendo le robe più buffe che c’erano in giro, ma non è stato possibile. Il mondo dei social è un territorio che la televisione ha toccato pochissimo, mentre i social spesso toccano la televisione. E’ un peccato. Tanto tempo fa preparammo un programma dedicato al web, avrebbe dovuto condurlo Claudio Bisio. Alla fine non vide la luce, ma ai tempi di Rai dire news – ad esempio – usavamo a piene mani il materiale proveniente dalla rete”.
E’ dunque una tv che rischia poco.
“Purtroppo ha poca voglia di mettersi in gioco. Io, Giorgio e Carlo siamo figli di Italia 1 e c’è stato un periodo in cui quel canale era la fucina di nuove idee. C’era il desiderio di provare, di proporre un canale giovane. E’ rimasto poco di quel mondo. C’è poca voglia, forse anche meno soldi, allora si va sul sicuro e si sperimenta poco. La tv ha più fretta di una volta. Tanti programmi datati sono ancora in onda perché hanno avuto la forza di resistere alle fatiche iniziali. Si ebbe il coraggio di non stopparli, di insistere e i risultati si videro. In questo senso, la tv attuale fatica. Noi l’anno scorso lanciammo Mai dire talk, un programma nuovo che andava corretto, aggiustato, testato. Purtroppo dopo sei puntate è stato interrotto”.
A proposito dei vostri programmi, qual è stato il periodo più complicato vissuto in questi trent’anni?
“Quando cinque anni fa passammo in Rai. Mediaset in quel momento non credeva molto in noi, eravamo presenti solo con Le Iene, come quest’anno peraltro. Capimmo che era il caso di provare altro e le due stagioni successive furono ricche di soddisfazioni”.
La fase più esaltante?
“Ce ne sono state tante. Potrei citarti le prime stagioni di Mai dire gol. L’anno in cui se ne andò Teo (Teocoli, ndr) vincemmo il Telegatto. Tutti diedero qualcosa in più. Senza dimenticare il 1990, anno in cui diventammo famosi in tutta Italia per le nostre cronache dei Mondiali”.
Alle vostre sigle prendevano parte calciatori ed allenatori. Oggi sarebbe improponibile.
“Sarebbe improponibile rifare Mai dire gol, più che altro. Scoppierebbero dei casini sui social con offese e contro offese. All’epoca era tutto più semplice, Mandi Mandi e Frengo giocavano sugli stereotipi friulani e pugliesi, ma erano in realtà degli omaggi. Quel mondo è un po’ permaloso, anzi ci stupì l’entusiasmo dei calciatori. Erano i primi a divertirsi, addirittura facevano delle delazioni per prendere in giro altri giocatori. A non digerire le nostre gag erano al contrario i presidenti e qualche mister. Trapattoni si arrabbiò tantissimo, ma noi l’abbiamo sempre amato”.
C’è qualche personaggio che non ha funzionato?
“Sicuramente e più di uno. Ricordo la fatica degli inizi di Aldo, Giovanni e Giacomo. Avevano i loro pezzi e infilare le nostre voci era complicato. In effetti hanno iniziato a funzionare quando sono emersi i personaggi singoli, con gli altri due sullo sfondo. Nel caso del sardo Nico noi parlavamo solo con Giovanni”.
I bulgari però facevano eccezione.
“Erano sketch di movimento, i bulgari non parlavano. Mi vengono in mente gli arbitri rinchiusi nello spogliatoio, era un pezzo bellissimo ma probabilmente doveva essere concepito senza le nostre voci. Infatti lo abbandonammo. La Tv Svizzera, viceversa, prevedeva il nostro commento in un pezzo chiuso, dove non interagivamo. Anche Ale e Franz, attori bravissimi e di talento, con noi hanno reso meno di quanto meritassero”.
Scopriste Paola Cortellesi grazie alla visione di un vhs. Con Virginia Raffaele invece come iniziò la collaborazione?
“Se non ricordo male ce la segnalarono Gigi e Ross. Virginia partecipava ad un programma radiofonico con Lillo e Greg e ci consigliarono di monitorarla. In seguito guardammo dei filmati su Youtube, la chiamammo subito. Venne a trovarci il 22 dicembre e la prendemmo immediatamente. Passò il Natale a Milano per provare i trucchi dei personaggi che avrebbe dovuto interpretare. Una grandissima, se la gente è valida è normale che venga richiesta altrove. La bravura scatena inevitabili dinamiche”.
In questi casi prevale l’orgoglio o un comprensibile fastidio?
“Personalmente, non ho mai pensato di nessuno ‘l’ho inventato io’. Quando una persona ha talento viene chiamata in giro. Anche Mai dire talk, che non è stato capito e non ha avuto una continuazione, ha rappresentato un trampolino per Francesca Manzini. Più complicato il discorso de Le Coliche, ma stavamo lavorando su di loro per renderli più televisivi. Avrebbero avuto bisogno di qualche uscita in più. Spesso non si capisce che se piazzi un fenomeno social paro paro in televisione, non è affatto detto che funzioni automaticamente”.
Per tre anni lavoraste con Daniele Luttazzi. Che tipo era?
“Era particolare, divideva molto, ma a me piaceva tantissimo. Da noi fece grandi stagioni. Combattemmo per togliergli quella patina di freddezza che mostrava in video. Il personaggio di Panfilo Maria Lippi, il giornalista di Tabloid, non era altro che un Luttazzi addolcito dal trucco. Quell’escamotage lo rendeva più simpatico e il pubblico lo accettò”.
Da decenni ospitate in radio le innumerevoli voci di Gianfranco Butinar. Perché non lo abbiamo mai visto nei vostri programmi televisivi?
“Ci abbiamo provato. Secondo me è straordinario, ma le performance in video forse erano troppo complesse. Ha una conformazione del viso particolare, non era facile da truccare, nonostante avessimo uno staff di truccatori mostruoso. La colpa fu pure nostra, dato che uno dei primi personaggi che tentammo fu Ronaldo, il Fenomeno. L’esperimento non andò bene, ma in radio a lui non abbiamo mai rinunciato”.
Nell’estate del 2006 approdaste a Sky per commentare i Mondiali. Come mai la collaborazione con la pay-tv non proseguì?
“Fu un’esperienza bellissima. Avevamo un canale dedicato e, esclusi i match dell’Italia, facevamo ascolti più alti della partita col commento originale. L’azienda rimase talmente contenta che l’anno seguente avremmo dovuto realizzare una specie di Quelli che il calcio. Avevamo definito tutto, c’era già la redazione pronta. Ma quell’estate coincise con la retrocessione della Juventus, scenario che spinse Sky ad acquistare i diritti della serie B. Ci comunicarono che avevano esaurito il budget e il progetto saltò. Quattro anni dopo, nel 2010, ci fu un nuovo contatto alla vigilia del sorteggio dei gironi del Mondiale in Sudafrica. Avremmo dovuto commentare di nuovo le partite, raggiungemmo un accordo economico con stretta di mano finale, ma alla fine non se ne fece nulla”.
Tra i progetti saltati all’ultimo segnalo anche un Eurofestival, nel 2012.
“Vero, ma non ero presente alla riunione decisiva. Mi venne riferito che c’erano dei vincoli, non ricordo precisamente quali. Probabilmente non era consentito il nostro commento sopra le esibizioni dei cantanti”.
Negli ultimi anni avete regalato delle incursioni all’interno del Gf Vip e dell’Isola. Interventi considerati però brevi, circoscritti e in alcuni frangenti registrati.
“Inizialmente i nostri ingressi erano tutti in diretta. Poi decidemmo di registrare gli ultimi. Era soprattutto un problema di tempi. Eravamo chiusi negli studi di Milano e poteva capitare di essere spostati; non dipendeva da noi. I nostri interventi andavano sempre forte, ma nei reality eravamo la ciliegina e non la torta. A rimetterci fu la ciliegina”.
All’attivo vantate anche un film, Tutti gli uomini del deficiente. Il successo televisivo non si spostò al cinema.
“Quel film non era male, era quindici anni avanti. Dentro c’erano i videogiochi, le interazioni. Oggi sarebbe campione d’incassi. Credo che ci fosse troppa roba all’interno, proposta in maniera troppo veloce. Riempivamo i cinema al pomeriggio, ci andavano i ragazzini, ma la sera le sale si svuotavano, gli spettatori preferivano altri titoli. Non era un film adatto al periodo natalizio. Incassò quasi 6 miliardi”.
Riusciste persino a convincere Arnoldo Foà.
“Sì, Arnoldo lo ricordo con gioia. Parlare con lui negli intervalli era davvero emozionante. Un gigante”.