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The Last Dance, perché è la docuserie migliore di sempre

The Last Dance, un fenomeno che va oltre l’epica del protagonista: scrittura e confezione definiscono nuove ‘altezze’ nella docuserialità.

pubblicato 25 Maggio 2020 aggiornato 30 Agosto 2020 01:40

Per cinque settimane The Last Dance è stato il lunedì sera: per chi ha seguito la docuserie su Netflix fin dal debutto del 20 aprile, il lunedì è stato il giorno delle nuove puntate. E una certa mancanza oggi si sente.

La formula settimanale, che la piattaforma riserva a pochi titoli, si è resa necessaria per due motivi: in primis perché in USA il titolo è andato in onda nel prime time domenicale di ESPN (produttrice con Netflix), dove ha registrato una media di 5,6 milioni di telespettatori nei 10 episodi trasmessi imponendosi come il doc più seguito nella storia della rete. Al di fuori degli USA, sono state 23,8 milioni le famiglie abbonate a Netflix che hanno visto almeno 2’ di programma nelle prime quattro settimane di messa in onda: mancano ancora i dati comprensivi delle ultime due puntate.

Ma dicevamo che c’è una seconda ragione per la messa in onda settimanale: le puntate non erano ancora pronte. La serie sarebbe dovuta andare in onda durante i finals a giugno, ma la pandemia ha fermato tutto e ha spinto ESPN ad anticiparla: un modo per offrire qualcosa a un pubblico a secco di sport live.

Anche per questo The Last Dance è molto più dei suoi numeri. Quel che colpisce di queste 10 puntate da 50′ è la perfezione della realizzazione. Due anni di lavoro, ma con buona parte delle puntate editate da remoto durante il lockdown. E senza una sbavatura nel ritmo, nella costruzione, nel montaggio, nella cura.

Una narrazione che non sbaglia un colpo

Be like Mike“: direi che produttori e regista hanno fatto proprio lo storico slogan della Gatorade con Jordan testimonial e hanno costruito un racconto all’altezza del proprio protagonista. Un docu GOAT, Greatest of All Time.  Una cosa nient’affatto scontata.

Il regista Jason Hehir ha all’attivo altri Sport’s Icon Doc, come Andre the Giant, realizzato nel nome del wrestling per HBO Sports nel 2018, o Down in the Valley seguendo le gesta dell’ex superstar del basket Kevin Johnson, ma con la ricostruzione dell’ultimo anno dei Chicago Bulls di Phil Jackson sembra aver riscritto le regole del genere. Hehir è riuscito, infatti, a disegnare un racconto epico, centrato sì sull’eroe che traghetta la squadra all’immortalità, ma anche in grado di dare a ciascuno dei suoi compagni una tridimensionalità che permette loro di non essere schiacciati da MJ come un pallone a canestro. Certo, tutto il racconto È la versione di Jordan – e per questo non ha mancato di scatenare polemiche sia tra ex compagni sia tra eterni rivali – e lo spessore di compagni e avversari è funzionale all’esaltazione del protagonista. Ma riuscire a dosare le vicende personali, professionali e sportive di decine di personaggi clou dell’NBA dal 1984 al ’97 in maniera tale da renderne intellegibili e comprensibili intenzioni, comportamenti e ragionamenti è roba da alchimisti.

Che dire poi del ritmo, della struttura tensiva e mai deludente dei singoli atti e dei cliffhanger mozzafiato alla fine di ogni puntata? Mi sono ritrovata a singhiozzare col più grande dei grandi sul pavimento degli spogliatoi abbracciata a un pallone che non ho mai toccato in vita mia alla fine dell’ottava puntata. Se non è arte questa…

Una docuserie bigger than Basket, per alcuni versi. Il basket è lo sport della sospensione: alterna velocità supersoniche e decimi di secondo infiniti. Piega il tempo all’emozione, lo modifica a suo piacimento, lo trasforma a seconda del punto di vista. Ecco, The Last Dance riesce a farlo con un racconto audiovisivo: si mimetizza con lo sport ed è forse anche questo uno dei segreti del suo successo. Merito anche di un montaggio accuratissimo che non perde mai di vista il pallone, che sembra forzare lo spazio-tempo, che sembra essere fatto su immagini costruite, fotogramma su fotogramma, su uno storyboard predefinito.

E invece no. È l’opposto. Una delle cose che mi ha più incuriosito, colpito, stupito è stata proprio la confezione. Così ho cercato di capirne di più.

Confezione, materiali, montaggio: I Love This Game

Da dove arrivano quelle magnifiche immagini da bordocampo, quegli stacchi zoommati su protagonisti e pallone, quei movimenti di macchina che riescono a seguire azioni concitate fondendo campo, controcampo e dettagli del tabellone?

Alla base ci sono le riprese in 16mm realizzate dalla troupe della NBA che ha seguito i Chicago Bulls per tutta la stagione 1997-98: le parole del GM Jerry Krause lasciavano pochi dubbi sull’intenzione di non rinnovare il contratto a Phil Jackson e con lui sarebbe stata smantellata la squadra dei record, mentre MJ aveva già dichiarato che senza il suo allenatore non sarebbe tornato in campo. L’ultimo anno di Jordan, e un eventuale sesto titolo in 8 stagioni, ha ovviamente stuzzicato la Lega che non si è lasciata sfuggire l’occasione di documentare un evento. Previo ok di Jordan, ça va sans dire. Un sì arrivato solo nel 2016, 18 anni dopo la registrazione di quella stagione.

Le 500 ore di girato NBA sono state ridotte a 200 minuti di grezzo da montare insieme alle circa 100 interviste realizzate ad hoc, ai materiali di repertorio, agli estratti dei programmi tv dell’epoca. A selezionare la pellicola quelli che per me sono eroi, ovvero i montatori Chad Beck, Devin Concannon, Abhay Sofsky e Ben Sozanski. Certi frammenti rubati, certi raccordi apparentemente casuali, certi dettagli certosini sono degni di restauratori di opere rinascimentali.

Il grezzo in pellicola arriva quindi alla SIM Production, che ha poi finalizzato l’impresa occupandosi del montaggio finale, del coloring, del missaggio, con i tecnici costretti a lavorare da casa per il lockdown e con una scadenza anticipata di due mesi.

Una corsa contro il tempo, dunque. Come riporta Variety, al debutto del 19 aprile solo una parte delle puntate era pronta. Poi il lockdown, iniziato a metà marzo: in quel momento solo tre delle 10 puntate erano state realizzate in studio, poi tutti a casa. Per poter completare il lavoro nei tempi previsti, la SIM ha attrezzato le case degli editor, dei colorist, dei responsabili del missaggio audio e video con postazioni ad hoc, implementando flussi di lavoro crittografati e ‘stoccando’ il materiale in un server protetto della sua sede newyorkese per evitare hackeraggi.

Fare ottima tv nascondendo la tv: come portare il pubblico sul campo

Ma torniamo al montaggio: come racconta uno degli editor, la principale sfida sul piano visivo è stata quella di rendere ‘omogenei’ formati e qualità molto diverse, mettendo insieme 16mm in 2K a reperti sgranati della tv anni ’90, riadattando 4:3 in 16:9.

L’obiettivo narrativo è stato però sempre molto chiaro: fare in modo che gli spettatori seguissero sempre la palla, preferibilmente senza perdere di vista il punteggio. Un modo visivo per mantenere la tensione, arrivando anche a ‘simulare’ il comportamento visivo di uno spettatore nel palazzetto.

“Nel taglio, siamo sempre stati molto attenti a fare in modo che ogni azione di gioco fosse al centro dell’inquadratura, eliminando la grafica originale e cercando di creare una tutta nostra. In alcuni casi abbiamo creato degli effetti di movimento all’interno delle inquadrature per far seguire al pubblico tutti i dettagli dell’azione di gioco. E ci siamo resi conto che avere il tabellone in scena aiutava il pubblico a orientarsi più facilmente nelle velocissime azioni di gioco”

ha raccontato Chad Beck. Un lavoro non da poco, che ci ha regalato alcuni dei passaggi più suggestivi nel racconto dei momenti decisivi.

Certo non va sottovalutata la quantità e la qualità del materiale di partenza, e quindi la potenza di fuoco messa in campo dalla NBA: la quantità di inquadrature usate e la qualità delle riprese evidenziano un numero imprecisato di camere e di operatori di primo livello. Sono ovunque. Ma nelle 500 ore di girato ci vogliono davvero le capacità per selezionare il necessario, riuscendo a ricostruire la tensione di un palazzetto da tutti i suoi punti di vista: giocatori, panchina, tifosi,  pubblico avverso, commentatori tv, allenatori. Una roba da globetrotter.

Tornando alla post-produzione, difficile anche la sfida dei colorist, che hanno cercato un aspetto cinematografico sì, ma naturale, capace di uniformare, per quanto possibile, le diverse fonti e creare un flusso visivo che non creasse ‘stacchi’ nella percezione degli spettatori e quindi permettesse loro di lasciarsi coinvolgere senza abbandonare l’illusione di essere e allora.

Se c’è un’altra cosa che The Last Dance è riuscita a fare è stata dare uno spessore al suono. Non mi riferisco alla colonna sonora, che in genere stuzzica l’orecchio degli spettatori, ma sul sonoro in quanto tale, diventato a propria volta un personaggio del racconto. Un’altra caratteristica speciale di questo testo, che rinfresca il concetto di ‘audio’/visivo. Come ha spiegato il sound editor Keith Hodne:

“io e il regista abbiamo voluto ricreare la sensazione di essere davvero sul campo, per sentire il gioco, la folla, la suspense, l’azione nel suo farsi, non quello che normalmente si sente quando vedi una partita in tv. Abbiamo cercato di catturare la nostalgia.”

E se si pensa al silenzio sospeso e densissimo dell’ultimo canestro si può forse capire quanto sia importante ogni dettaglio nella realizzazione di un capolavoro.

E The Last Dance lo è.

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