Brennero, lo sceneggiatore Andrea Valagussa: “La sfida è stata quella di fare un prodotto per il mercato internazionale, ma restando su Rai 1”
Una serie “ibrida”, tra le regole classiche del crime e alcune scelte audaci: lo sceneggiatore di Brennero Andrea Valagussa ci racconta la genesi della serie che ha aperto la stagione della fiction Rai
La nostra chiacchierata con Andrea Valagussa, uno degli sceneggiatori di Brennero (di cui stasera su Raiuno va in onda il finale), comincia con una parola: “sorpresa”. La serie tv prodotta da Cross Productions e Rai Fiction è di fatto stata una vera e propria sorpresa di questo avvio di stagione tv: mettendo d’accordo pubblico e critica, è riuscita a portare sulla prima rete Rai un racconto ibrido, che rispettasse le classiche regole del crime ma che riuscisse anche a offrire qualcosa di nuovo.
“Grazie per averci definito ‘sorpresa’”, esordisce Vagalussa. “La programmazione a inizio settembre in effetti non ha permesso una grande promozione, ma siamo felici di essere comunque arrivati al pubblico che credo abbia da subito riconosciuto la qualità produttiva del prodotto, la sua veste grafica, grazie alla sapiente regia di Davide Marengo e Giuseppe Bonito, il suo cercare un punto di vista originale pur all’interno di un genere definito. E poi, ne sono certo, ha amato i suoi interpreti, in particolare Elena Radonicich e Matteo Martari che, grazie al loro talento e all’incredibile lavoro fatto sul set, hanno da subito saputo conquistare gli spettatori”.
Valagussa (anche dietro a serie tv come La Strada di Casa, Fino all’ultimo battito e Black Out-Vite sospese) ha curato il soggetto di serie di Brennero con Carlo Mazzotta, Giulio Calvani e Daniele Rielli; lui e Mazzotti si sono anche occupati delle sceneggiature. “Il processo di creazione di una serie originale dura quasi sempre un paio d’anni tra la nascita del progetto e le riprese”, ci spigea. “In questo caso i tempi si sono allungati per la messa in onda. La serie avrebbe già dovuto andare in onda a gennaio del 2024, ma poi la Rai ha fatto altre scelte. A un certo punto, scherzando tra di noi, dicevamo che, se non ci avessero messo in onda, saremmo diventati una serie ‘period'”.
In conferenza stampa è stato detto che Brennero vuole ribaltare gli stereotipi e le convinzioni che abbiamo su chi è diverso da noi. Ne è nata una serie ibrida, perfetta per il genere di cui si fa portavoce Raiuno, ma al tempo stesso molto differente dai suoi predecessori. Da Rai Fiction avete avuto richieste particolari rispetto alla storia che avevate in mente all’inizio?
“Rosario e Maddalena Rinaldo, produttori di Cross Productions, hanno da subito lanciato a me e a Carlo Mazzotta la sfida di fare un prodotto diverso che potesse parlare un linguaggio più contemporaneo e ambire a un mercato internazionale. Rai, dal canto suo, ha condiviso l’ambizione. In un certo senso la sfida più difficile è stata trovare l’equilibrio per essere ‘originali’, ma restando Raiuno”.
Il racconto si avvicina molto ai crime nordeuropei molto di moda qualche anno fa, ma io ci ho visto anche -soprattutto nel rapporto tra Eva e Paolo- un tocco di True Detective. Puoi dirci se scrivendo Brennero avete tenuto conto di qualche titolo già uscito in passato?
“Devo di nuovo ringraziarti perché i paragoni che fai sono di quelli che fanno tremare le vene e i polsi. Una delle reference più citate inizialmente era The Bridge, serie che condivide con la nostra non solo l’estetica, ma anche le tematiche del confine e dell’integrazione. Un’altra serie che abbiamo preso a modello è stata Mare of Easttown e poi, almeno nella definizione del padre di Eva, il magnifico film The Father”.
Rispetto ai “soliti” crime, ho notato audacia nel raccontare l’evoluzione del rapporto professionale e personale tra i due protagonisti. Eva e Paolo si annusano, si avvicinano, sembrano iniziare una relazione ma poi fanno entrambi un passo indietro. Avete, insomma, giocato bene la carta della tensione sessuale, puntando soprattutto sull’amicizia e il rispetto che s’instaura tra di loro. Ma non avete temuto che questo tira e molla potesse rendere più confusi i contorni degli stessi personaggi?
“Come detto, il tema della serie è l’integrazione, un obiettivo complesso che si può raggiungere solo conoscendosi davvero, andando oltre i pregiudizi e gli stereotipi. Per metterlo in scena siamo partiti proprio da qui, dal creare due personaggi che apparissero come dei perfetti cliché: Eva, razionale, algida, in qualche modo ‘tedesca’ e Paolo, indisciplinato, guascone, irruento, cioè ‘italiano’. Ma questa, lo sa chi ha visto la serie, è solo la superficie. Scavando in profondità Paolo scoprirà che in realtà Eva è molto più italiana, emotiva e irrazionale di lui e viceversa Eva scoprirà che Paolo è molto più determinato e metodico di lei. La chiave, come detto, è la conoscenza. Insomma, per una volta, la storia di tensione sentimentale non era solo un ingrediente per catturare i tifosi delle ‘ship’ amorose, ma una necessità drammaturgica, anzi l’unica via per dare realmente vita al tema. Ecco perché non abbiamo avuto paura di perseguire questa strada, ma anzi l’abbiamo cavalcata fino all’ultima stilla”.
Proprio Eva e Paolo sono due antieroi, con dei bagagli emozionali molto pesanti. Nonostante vivano situazioni a volte estreme, sono personaggi in cui possiamo identificarci proprio grazie alle loro emozioni, dal rimpianto al senso di colpa, fino all’insicurezza e la rabbia; emozioni queste che si riflettono anche sugli altri personaggi. Sono finiti i tempi delle serie tv in cui il protagonista era un eroe o eroina a tutto tondo?
“Personalmente amo gli antieroi. Nelle serie che firmo tornano spesso. Antieroe era Fausto Morra in La Strada di Casa, antieroe Diego Mancini in Fino all’ultimo battito. Paolo ed Eva al loro confronto sono molto meno chiaroscurati, ma mantengono una veridicità, una fallibilità. La drammaturgia è conflitto e le persone imperfette ne generano molto di più degli eroi a tutto tondo. Questo non significa che il modello dell’eroe perfetto sia destinato a tramontare, ma personalmente ho più empatia per gli ‘imperfetti’, come dici tu, mi somigliano di più”.
Altra scelta molto audace è stata quella di legare a un doppio filo il mistero principale della serie, ovvero il Mostro di Bolzano e gli omicidi che si è lasciato dietro. Avete deciso di svelarne l’identità praticamente a metà stagione, facendo intuire al pubblico che, però, il mistero non era per nulla ancora risolto. In termini di scrittura quanti vi è costato “dividere” in due la linea orizzontale della serie?
“In realtà mostriamo il suo volto già alla fine della prima serata. Ma anche in questo caso non è una scelta di stile, ma di contenuto. Abbiamo voluto perseguire la stessa operazione condotta sui personaggi protagonisti pure sull’antagonista. Anche qui, se vogliamo, partiamo da un cliché: l’assassino spietato che uccide a sangue freddo in modo seriale. In apparenza è il male assoluto, ma addentrandoci nella storia scopriremo che forse non è davvero così e che il mostro più che carnefice è a sua volta vittima”.
Il doppio filo lo troviamo anche nel rapporto con il contesto in cui è calato il racconto: se da una parte avete lavorato di fantasia, dall’altra avete attinto ai tumultuosi anni in cui il Sudtirolo è finito nel mirino degli attentati del Bas. Questo intreccio tra Storia e finzione era nelle mente di voi sceneggiatori dal principio?
“Per una volta l’ispirazione della storia è nata dal contesto. Si voleva raccontare la particolare condizione dell’Alto Adige, un territorio che oggi ci appare come una sorta di paradiso terrestre, ma che è il risultato di un conflitto che ha radici lontane. La scelta di legare la storia d’invenzione a quella con la S maiuscola è stata quasi naturale”.
Sempre a questo proposito, avete portato in tv una pagina di Storia di cui forse non tutti erano al corrente. Secondo te la lunga serialità può assumere anche un ruolo divulgativo, anche se non al pari delle docu-fiction e dei docu-film?
“Ti svelo un segreto. Io stesso non conoscevo per niente la storia tumultuosa di questo territorio. Ma poi studiando ho scoperto le vicende della Notte dei Fuochi, di come il governo fu obbligato a istituire una forza speciale dell’Esercito, dei morti e dei feriti. Addirittura, sono venuto a conoscenza di come i Pooh, nella loro prima apparizione a Sanremo, portarono il brano ‘Brennero 66’, che racconta la storia di un soldato morto in uno di questi attentati. Era la base perfetta per dare concretezza e verità al tema della serie e anche un’occasione per raccontare un pezzo di storia del nostro paese. Non a caso Gerhard, il padre di Eva, è malato di Alzheimer. Il tema della memoria fa parte del nostro racconto. La domanda è: meglio dimenticare o raccontare perché non succeda ancora?”
Dopo la messa in onda televisiva della prima puntata, la serie è uscita in Box Set su RaiPlay, dove tutt’ora è tra i primi posti dei contenuti più visti. Da sceneggiatore, quanto è cambiato (se è cambiato) lavorare a una serie tv con la consapevolezza che ne è cambiata anche la fruizione?
“Sarò sincero, la scelta ha sorpreso anche me, in parte, lo confesso, mi ha spaventato. Personalmente sono convinto che il digitale sia un futuro quasi inevitabile. I miei figli, 9 e 14 anni, non sanno cosa sia la televisione generalista. Loro sono nati con la smart tv, pensano alla tv come a un catalogo in cui scegliere cosa vedere. Quindi la scelta Rai è, secondo me, giusta. Spero solo che nel computo totale degli spettatori si possano aggiungere anche le visualizzazioni di RaiPlay. Come sai noi siamo ancora esposti al tribunale insindacabile dell’Auditel e mettere la serie sul digitale credo abbia inevitabilmente abbassato i numeri di chi ha seguito la serie sulla generalista”.
Per Raiuno hai anche lavorato a Per Elisa-Il caso Claps, che è diventato una delle serie più viste su Netflix non appena è stata inserita in catalogo. In quel caso, a differenza di Brennero, l’aderenza ai fatti storici era fondamentale. È più facile scrivere una serie quando hai già un “percorso” tracciato dai fatti reali o diventa un’arma a doppio taglio?
“Sono due sfide profondamente diverse, ma ugualmente intriganti. Nel caso di Per Elisa l’obiettivo è stato, sin dal primo giorno, inventare il meno possibile, ma impegnarsi a dare una struttura narrativa alla realtà dei fatti. In Brennero il lavoro è quasi opposto, prima c’è un mondo da costruire e poi si cerca la struttura per valorizzarlo. Sinceramente ho adorato entrambe le sfide e sono profondamente affezionato, per motivi diversi, a entrambi i progetti. Il miglior complimento a Per Elisa ce l’ha fatto il vero Gildo Claps quando ci ha detto che si era riconosciuto nella serie. Il miglior complimento a Brennero è quello che hai fatto anche tu all’inizio quando hai sottolineato l’originalità della serie”.
Brennero è solo una delle tante serie tv a cui lavori: stiamo aspettando, ad esempio Black Out 2. Anche in quella serie, il finale ha lasciato in sospeso alcune questioni, puoi anticiparci qualcosa?
“La seconda stagione è in fase di montaggio e se tutto va come deve tra poco magari ci ritroviamo per presentarvelo! E poi sempre in questa stagione andrà in onda Belcanto (dedicata al mondo dell’Opera e ambientata a metà Ottocento, con protagonisti Vittoria Puccini, Carmine Recano e Giacomo Giorgio, ndr), un gioiello che non vedo l’ora di farvi conoscere”.