Giulia Innocenzi a TvBlog: “Mi chiamavano ‘Santorina’, non mi sono mai offesa, ecco il mio primo documentario che piattaforme e produttori non vogliono”
Giulia Innocenzi: “Mi chiamavano Santorina, non mi sono mai offesa, ecco il mio primo documentario che piattaforme e case di produzioni non vogliono”
“Food for Profit è il primo documentario che mostra il filo che lega l’industria della carne, le lobby e il potere politico. Al centro ci sono i miliardi di euro che l’Europa destina agli allevamenti intensivi, che maltrattano gli animali, inquinano l’ambiente e rappresentano un pericolo per future pandemie“. Giulia Innocenzi presenta così il film al quale ha lavorato per cinque anni e che firma insieme a Pablo D’Ambrosi. Quarant’anni, la giornalista e attivista ha documentato i terribili maltrattamenti che avvengono in maniera sistematica all’interno degli allevamenti intensivi in Spagna, Germania, Polonia e Italia. Il 22 febbraio scorso il documentario è stato proiettato al Parlamento Europeo.
Abbiamo dovuto affrontare una serie di difficoltà e moltissimi ostacoli. Realizzare le inchieste all’interno degli allevamenti e del Parlamento europeo è molto lungo. Abbiamo avuto tantissimi problemi produttivi, di mezzo c’è stato anche il covid che ci ha bloccato. Poi abbiamo ricominciato, viaggiare in giro per l’Europa durante quel periodo non era semplice.
Avete cercato qualcuno che producesse il documentario?
Certo, ma purtroppo non siamo riusciti a trovare un grande gruppo disponibile a farlo. A quel punto o mollavamo buttando tutto al macero oppure ce lo producevamo da soli e… così abbiamo fatto! Abbiamo dovuto raccogliere i fondi che ci mancavano. Tutto il film è frutto di donazioni. Fare un documentario costa tantissimo. Io e Pablo abbiamo lavorato gratuitamente.
Non aver trovato società di produzioni disponibili a sostenervi l’ha sorpresa o se lo aspettava?
Tutti capiscono che questo è un tema molto contemporaneo, verso il quale nella società c’è grande sensibilità. Un grande produttore – non dirò chi – mi ha fatto i complimenti per il documentario che ha definito bellissimo, ma poi mi ha riferito di aver fatto telefonate agli uffici legali di piattaforme e di possibili distributori che gli hanno spiegato che ‘questo progetto non passerà mai’.
Tra i produttori compare Davide Parenti, il capo de Le Iene.
All’inizio di questa avventura lavoravo a Le Iene, è stato lui che ha dato il via al progetto, che è partito grazie al primissimo finanziamento della comunità di mobilitazione online Avaaz, con cui avevo collaborato in passato facendo un fundraising per mettere le telecamere negli allevamenti e nei macelli. Poi ci siamo dovuti costruire la società da soli e sono riuscita a ottenere i finanziamenti che ci mancavano da fondazioni e cittadini sensibili al tema degli allevamenti intensivi e dei diritti degli animali e del veganesimo.
Insomma, problemi produttivi non da poco.
A cui si aggiungono quelli distributivi, perché non basta finire un film, poi ci deve essere qualcuno che te lo vuole proiettare. Ci siamo dovuti inventare un modello distributivo di sana pianta, indipendente. Mi sono rivolta semplicemente ai cittadini, chiedendo di organizzare loro stessi delle proiezioni, anche nei cinema. Siamo stati inondati di richieste, all’inizio rispondevo io una ad una, poi non ce l’ho più fatta, arriva una mail ogni 8-10 minuti! Quindi adesso abbiamo un ragazzo che ci aiuta proprio per rispondere alle richieste. Il calendario attuale (aggiornato costantemente qui) fa abbastanza impressione, perché sembra una cosa organizzata, quasi una distribuzione canonica, invece ce la stiamo facendo da soli. Insomma, noi diamo il film gratuitamente e chiediamo a chi lo guarda, dove possibile, di fare una donazione che serve per coprire le ultime spese di produzione e per poterlo distribuire il più possibile in tutta Europa. L’obiettivo è farlo vedere, prima di tutt, nei Paesi investigati, quindi Germania, Spagna e Polonia.
Report e Le Iene lo trasmetteranno?
Posso anticipare che Le Iene stanno preparando un servizio sul tema, Davide Parenti è convinto della bontà del progetto. Per Report – con cui continuo a collaborare – ho parlato con Sigfrido Ranucci, gli è piaciuto tantissimo, spero riusciremo a trasmetterlo, anche se non so in quale forma, perché il documentario si dovrà adattare al linguaggio televisivo. Penso che la casa ideale di un documentario spinoso come questo sia proprio la Rai.
Oltre a Ranucci, ha proposto Food for profit ad altri dirigenti del servizio pubblico?
No, per la Rai mi sono rivolto solo a lui. Ranucci nell’ultimo anno mi ha permesso di fare inchieste sul comparto della carne e del formaggio in Italia, su qualunque marchio, senza mai alcun problema, massima libertà di espressione, quindi davvero sarebbe un sogno se Report trasmettesse questo documentario.
L’atteggiamento delle piattaforme qual è stato?
Non farò i nomi, perché sono una persona molto elegante, ma anche qui mi è stato risposto che c’erano dei problemi legali. Mi è stato detto: ‘Noi non facciamo politica!’. Mi è sembrata una frase strana, perché nelle piattaforme vediamo tantissimi documentari su tanti temi diversi, forse il fatto che in Food for profit ci siano dei politici filmati di nascosto rappresenta un ostacolo per le piattaforme.
Come vi siete tutelati sul fronte legale?
Abbiamo fatto una verifica frame by frame per blindare il contenuto. Prima della proiezione a Bruxelles abbiamo ricevuto una diffida da una delle aziende investigate. Ma andiamo avanti.
Il documentario si chiude con l’appello “Stop sussidi pubblici agli allevamenti intensivi”. È questo l’obiettivo politico che vi ponete?
Di sicuro non è farci i soldi, anzi, finora li ho solo persi (ride, Ndr). A parte gli scherzi, sì, certo, è il primo obiettivo. Stiamo raccogliendo le firme per sensibilizzare i parlamentari europei della prossima legislatura, quelli che decideranno la nuova politica agricola comune, ossia il fondo che dà i soldi all’agricoltura. Attualmente 387 miliardi di euro in sette anni vanno agli allevamenti intensivi. L’altro obiettivo è, appunto, una moratoria sui nuovi allevamenti intensivi. E poi chiediamo un’assemblea dei cittadini per decidere sulla politica agricola comune, quindi che non siano i lobbisti per interposta persona a decidere su come vengono destinati i soldi della politica agricola comune, ma siano i cittadini con un’assemblea di cittadini estratti a sorte, un po’ come ha fatto Macron in Francia.
Nella sua carriera si è occupata di politica, poi di vaccini, da qualche tempo di allevamenti intensivi. Ha già in mente il macro-tema del suo futuro professionale?
Oggi l’urgenza che sento di più è quella del cambiamento climatico. Mi piacerebbe approfondire il tema del greenwashing e del potere dei lobbisti che ostacolano in tutti i modi le riforme di cui abbiamo assoluto bisogno per contrastare il cambiamento climatico.
In Italia quali colleghi considera dei riferimenti su questi temi?
Non siamo tanti ad occuparcene. Sabrina Giannini lo ha fatto prima a Report e ora a Indovina chi viene a cena. E poi mi confronto spesso con Ranucci.
Di Michele Santoro cosa mi dice, invece?
È il mio papà lavorativo. Mi ha dato la possibilità, primo in assoluto, di trattare questi temi, a cui lui ancora oggi è molto interessato. Lo feci con Announo, in prima serata su La7, con ospite Oscar Farinetti. Ieri sera entrambi erano con me a Roma alla prima del film, ha presenziato anche Gabriele Muccino che ha fatto una bellissima recensione. Stasera sarò a Milano.
Sono trascorsi una decina di anni da quando Giulia Innocenzi era definita provocatoriamente “santorina”. La infastidiva?
Vabbè, ‘santorina’ mi fa sorridere, era un gioco dei media. Ero una ragazza sconosciuta arrivata nel programma di Michele Santoro, chiamarmi ‘santorina’ era un gioco facile, oltretutto nel periodo delle veline. A ripensarci fa ridere perché, diciamo, il modello delle veline non è mai stato quello di riferimento per me. Ma non mi sono mai offesa per questo.
Lei non è iscritta all’ordine dei giornalisti (nel 2013 fu bocciata all’esame di Stato), eppure fa giornalismo di inchiesta. Una contraddizione?
Io vengo dalla famiglia dei Radicali, ho una certa avversione nei confronti degli Albi e degli Ordini. Chi fa giornalismo lo dimostra sul campo, io lo faccio tutti i giorni e poi è il pubblico che valuta se il mio giornalismo sia meritorio o no.
Nel documentario si esprime anche in inglese e spagnolo…
In questo mestiere devi studiare quotidianamente e tutte le carte. Quando vado sul campo devo essere convinta al 100% di quello che sostengo. Andare da un allevatore e dirgli che sta trasgredendo le regole e chiedere conto di alcuni comportamenti non è una bella cosa; non mi sveglio la mattina felice di andare a fare quello che faccio, lo devo fare perché fa parte del mio mestiere, devo capire, devo ottenere delle risposte rispetto a certe domande.
Gli allevatori che ha incontrato in questo lungo viaggio tendono a minimizzare.
Sì, in Spagna al Presidente di un allevamento di maiali che fa capo ad una azienda da centinaia di milioni di fatturato l’anno ho detto che c’erano molti animali malati che non venivano curati, lui ha risposto che anche all’ospedale ci sono. Sono persone che difendono il loro business, li capisco. La cosa che più mi ha colpito sono, invece, gli eurodeputati che negano l’esistenza degli allevamenti intensivi in Europa. Invece di ammettere che servono per aumentare la produttività di carne e per ridurre i costi di produzione, preferiscono negare la realtà.
A proposito di realtà, in Food for profit ci sono immagini molto forti, talvolta disturbanti.
Ieri sera a Roma c’era anche Dacia Maraini, una delle voci più autorevoli in Italia rispetto ai diritti degli animali. Lei mi ha chiesto: ‘Giulia, ci sono immagini violente all’interno del documentario? Te lo chiedo perché io potrei non reggere!’ Il documentario vuole accendere i riflettori su quello che avviene dentro gli allevamenti, che sono luoghi purtroppo inaccessibili. E quindi è inevitabile che ci sia. Ma abbiamo fatto una scelta: non ci siamo censurati, ma abbiamo fatto la scelta di limitare al massimo quel tipo di immagini perché vogliamo che questo documentario venga visto dal maggior numero di persone possibili e non vogliamo un effetto respingente.