Claudio Madia, volto storico de L’Albero Azzurro: “Mi scelsero perché avevo una faccia qualunque. A X Factor imbracai Mengoni”
Claudio Madia, primo storico conduttore de L’Albero Azzurro: “Cercavano un cittadino comune, al provino eravamo oltre cinquecento. Nel 1994 mi mandarono via e poi mi richiamarono, ma sbagliai a tornare. Era un programma volutamente lento, oggi non si potrebbe più proporre sulla generalista”
L’Albero Azzurro posto di amici, l’Albero Azzurro posto felice, recitava – e recita – la sigla de L’Albero Azzurro. E amico di milioni di bambini è stato Claudio Madia, protagonista assoluto del programma della Rai per gran parte degli anni novanta. “Avevo una faccia qualunque e forse questa fu la mia principale qualità”, rivela a TvBlog. “Una delle caratteristiche richieste era che si fosse più o meno trentenni. Cercavano un potenziale genitore, un cittadino comune che non fosse né attore, né professionista”.
E Claudio, classe 1959, sembrò fin da subito perfetto. “Di me piacque anche la capacità di sbagliare bene, di reagire positivamente agli errori. Sbagliavo e non me la prendevo, come succede ai bambini”.
Proveniente dalla scuola di arte drammatica Paolo Grassi di Milano, Madia non fece mai in tempo a diplomarsi, proprio per colpa de L’Albero Azzurro, che avrebbe segnato la sua carriera: “Seguivo un bellissimo corso – racconta – stavamo lavorando a Moby Dick e avremmo dovuto metterlo in scena, ma non riuscii a terminare il progetto. Andai al provino, eravamo oltre cinquecento e il ruolo richiesto era in origine incompatibile con le mie caratteristiche. Cercavano una persona che sapesse cantare, ballare, recitare. Tutte qualità che non mi appartenevano, ma mi andò bene”.
Il suo primo amore fu però il circo.
Mi ha sempre affascinato l’idea di camminare sulle mani o sul filo, tutti hanno il diritto di sognare di provare a vedere il mondo alla rovescia, o sospesi. In Italia all’epoca non esisteva la professione di artista di strada, che invece era presente all’estero. Cominciai per sbaglio, man mano decisi che poteva diventare un mestiere e decisi che avrei fatto il saltimbanco. Mi sono esibito alla Scala e tante volte in televisione.
In quali trasmissioni?
Furono partecipazioni anonime, come comparsa o semplice attrazione, compresa una bella esperienza con Dario Fo e Franca Rame nello show del 1988 Trasmissione Forzata, che segnò il loro ritorno in tv. Eravamo una cinquantina di ballerini, mimi, acrobati e giocolieri.
In tal senso, che tipo di formazione ha avuto?
Studiai clowneria, cinque ore al giorno, tutti i giorni, per due anni. Fu molto formativo, ci insegnarono l’imbonimento di piazza, la presenza scenica, la capacità di stare su un palcoscenico e di intrattenere. Purtroppo subito dopo arrivò L’Albero Azzurro, che inficiò il mio percorso.
Nel programma tutti impazzivano per i suoi giochi d’arte.
Ero stato un grafico ed ero bravo con la matita. Nella mia vita feci pure il mozzo e da bravo marinaio imparai a costruire le barchette in bottiglia. Inoltre, mi fu molto utile un’esperienza in Perù, dove frequentai per un paio di mesi un artigiano della pietra che realizzava statuette per turisti. Avevo fatto cose talmente diverse l’una dall’altra che era proprio quello che serviva a L’Albero Azzurro. Ho sempre ammesso che la televisione non fosse fatta per me, tranne che per quest’esperienza, nel corso della quale sfidai in maniera sfrontata gli altri a sostituirmi.
Cosa intende?
Molti volevano il mio posto, alcuni ci hanno provato, ma io funzionavo meglio, forse per questa mia poliedricità. Mi sentivo in colpa nell’occupare un ruolo così privilegiato. Ero un neofita, per di più un teatrante, e sapevo che mi avevano preferito a gente che lavorava da anni sulla pedagogia e sul teatro sperimentale per l’infanzia.
Sul set sbagliavate parecchio?
Sì, ma gli errori di noi attori erano quelli meno importanti. Era più grave quando l’animatore di Dodò entrava in scena con il braccio, o quando si manifestavano problemi alle inquadrature, come luci ed ombre strane. In quei casi si girava e rigirava con tempistiche quasi cinematografiche.
Un impegno gravoso, immagino.
Giravamo 160 puntate l’anno, circa. In alcuni anni di più, in altri di meno. Dovevamo riempire l’intera stagione, estate esclusa. Preparavamo gli episodi un mese prima e si montava il tutto quasi a ridosso della messa in onda. Eravamo sempre di corsa.
Condivise l’avventura con Francesca Paganini. Siete rimasti in contatto?
Siamo condannati a sentirci (ride, ndr), ci coinvolgono spesso per le rievocazioni della trasmissione. In realtà non ci siamo mai persi di vista, anche se abbiamo intrapreso strade diverse. Ci trovammo bene assieme, fu tutto spontaneo e naturale.
L’Albero Azzurro era percepito come un programma estremamente lento, soprattutto se paragonato ad altre proposte per bambini.
Fu l’unica volta in cui gli scienziati riuscirono ad imporre il loro sapere alla televisione. Tutti sanno che i bambini hanno un ritmo differente dal nostro e in un contesto in cui si creavano gli spettatori del domani incitandoli all’entusiasmo, L’Albero Azzurro andava contro ogni tradizione e gusto televisivo, tenendo un ritmo volutamente e faticosamente lento. Credo che fu la nostra fortuna, pure le signore anziane, che si sintonizzavano per sbaglio, rimanevano incantate dalla nostra lentezza che le riportava bambine. Il nostro punto di vista era quello del bimbo, con inquadrature dal basso, a cui si aggiungevano la chiarezza del linguaggio e la ripetitività. Componevamo le filastrocche, ogni giorno integravamo un pezzo e a fine settimana venivano imparate dagli spettatori.
La squadra era di tutto rispetto.
Assolutamente sì. Roberto Piumini componeva le canzoni, il maestro Patrizio Fariselli i tappeti musicali. Alla regia c’era Velia Mantegazza, mentre la scenografia era curata da Gastone Mariani, poi diventato direttore dell’Accademia delle Belle Arti di Brera, non il primo raccomandato che passava. Queste quattro persone erano la struttura fondante de L’Albero Azzurro, noi davanti alle telecamere eravamo solo degli orpelli.
Federico Taddia, oggi autore di Fiorello, bazzicava spesso nei vostri studi.
Era un giovincello, studente di Scienze dell’Educazione a Bologna col professor Andrea Canevaro, a cui la Rai aveva chiesto una collaborazione. Il compito era fornire delle linee guida ed effettuare uno studio della trasmissione. Sottoponevano L’Albero Azzurro ai bambini, stilavano delle relazioni e tra queste persone c’era proprio Federico. Successivamente ci siamo rivisti, mi ha coinvolto in radio quando ha proposto puntate per i bambini e anche a Screensaver, su Rai3, in occasione di un servizio sulla mia scuola di circo.
Nel 1994, dopo quattro anni, venne sostituito.
Il curatore del programma venne destinato ad altre mansioni. Con il cambio del governo e della presidenza della Rai arrivò una nuova figura che decise di rinnovare e cambiare il prodotto. A cascata venimmo sostituiti pure noi, rimase solo Dodò. Da parte mia non ci fu alcuna preoccupazione, forse perché dalla prima puntata mi ripetevo che prima o poi sarebbe finita.
Tornò poco tempo dopo.
Si accorsero che la nuova produzione impiegava troppo tempo, soprattutto in fatto di manualità, e gradualmente richiamarono la vecchia guardia. Sbagliai a tornare, ero rientrato in un meccanismo che non funzionava più, non per gli attori che erano bravissimi, ma perché era sparito lo spirito primigenio. Se un tempo si lavorava con l’unico obiettivo della qualità, al mio ritorno i bambini erano diventati un aspetto secondario. Ognuno stava lì a difendere il suo posto. Rimasi un anno e mezzo e mi comportai in maniera poco aziendale.
A quel punto sbarcò su Rai Educational con La scuola in diretta.
Ero conduttore unico, tutti i giorni, di questo programma che andava in diretta. Ci rimasi fino al 2001. Non ci guardava nessuno. Il Ministero della Pubblica Istruzione regalava alle scuole le antenne per cogliere il segnale ed essendo una rete tematica rivolta solo agli studenti, anche se a casa ci fosse stato qualcuno munito di parabola non si sarebbe fermato da noi. Era un format utile per mettere a confronto nord e sud, con il coinvolgimento delle redazioni di Milano e Napoli. La Rai siglò una convenzione col Ministero affinché scuola e tv trovassero un punto di incontro. Il mio ruolo era interessante, non dovevo fare il professore, bensì l’attrattore caotico. Io, che non avrei dovuto fare televisione, alla fine l’ho fatta più del dovuto.
Prima ha accennato alla scuola di circo. E’ un’attività che porta tuttora avanti?
No, da parecchio tempo. Sentii quest’esigenza trent’anni fa, quando se un bambino desiderava fare ginnastica, poteva farla solo se predisposto fisicamente. Aprii la scuola nel 1990 come alternativa agli sport competitivi. Da me la competizione era solo con se stessi.
Perché ha mollato?
Ho lasciato nel 2015 proprio perché la scuola stava diventando competitiva. I bambini bravi volevano diventarlo sempre di più e quando arrivavano i neofiti si trovavano a lavorare con colleghi che, anziché svagarsi, puntavano a primeggiare. Si era perso l’intento iniziale e non mi divertivo più. Si era trasformata in una fabbrica di acrobati, molti di loro sono diventati artisti importanti. Una volta sarebbe stato un disonore, ora significa avere la possibilità di lavorare col Cirque du Soleil.
Oggi la tv per ragazzi abbonda, ma solo sulle reti tematiche.
Un prodotto di nicchia come L’Albero Azzurro non si potrebbe più offrire sulla generalista. Adesso ci sono tanti canali specializzati, tuttavia hanno il difetto di mandare una quantità incredibile di roba, di facile consumo, ventiquattr’ore al giorno.
L’Albero Azzurro esiste ancora.
Mi è capitato di vederlo, è tutt’altra cosa, compreso il ruolo dell’animatore. Il pupazzo è abbandonato a se stesso, mancano le indicazioni per renderlo più espressivo. C’è stato un crollo di qualità, in generale. Basterebbe guardare i nomi degli autori tv del novecento rispetto a quelli che ci sono in questa fase storica.
Ho letto che in Rai ci è tornato, seppur dietro le quinte.
Si ricordavano delle mie esperienze nel circo e quando c’era bisogno di appendere o imbracare qualcuno mi chiamavano. A X Factor feci volare una cantante di cento chili e misi in sicurezza Marco Mengoni durante una performance in quota, su un’altalena. Mettevo le cinture e controllavo i vari cavi. Ora esiste un professionista apposito; ai miei tempi non era così. L’Albero Azzurro fu la mia vittoria alla lotteria, mi rese famoso e mi ha fatto campare di rendita. Non ho più osato chiedere lavoro a nessuno. Le persone sapevano che c’ero e mi contattavano.
Di recente ha interpretato Gianfranco Funari nel documentario di Sky Funari Funari Funari.
Diciamo che ero un simulacro. Non cercavano un sosia, dovevano a malapena vedersi le mani e una persona che fumava. Pochi elementi ripresi da lontano. Evidentemente mi avevano visto con capelli e barba bianchi e hanno pensato che andassi bene. Non mi aspettavo quella chiamata, tra tutti i personaggi che avrei potuto interpretare, Funari è forse quello che mi somiglia di meno, per carattere e stile di vita.
Altre esperienze simili?
Dopo il circo è scattata la mia seconda carriera. Hanno iniziato a chiamarmi in quanto vecchio. Nel 2015 girai lo spot della Galbusera nel ruolo del cuoco acrobata e anche altri registi mi hanno sempre affidato la parte dell’anziano depresso e rimbambito.
Attualmente cosa fa?
Prima del covid avevo avuto un’idea bellissima: trasformare casa mia in un circo ottocentesco. Avevo messo su una compagnia di vecchietti e avremmo realizzato spettacoli nella mia abitazione per una cinquantina di persone. Poi è arrivata la pandemia. Ora ho un piccolo terreno a Milano dove passo le mie giornate. Ogni tanto mi chiamano e vado dove ci sono situazioni di disagio e vale la pena darsi. Parlo di diversamente abili, bambini, scuole di periferia. Lì il mio lavoro è ancora apprezzato.