Inchieste da fermo, Federico Rampini va a ruota libera sull’America. Poca informazione, molte opinioni, tanti “io”
Inchieste da fermo, il programma di Federico Rampini su La7, abbraccia un linguaggio a metà tra un TED Talk e una lezione universitaria
Sarà andata più o meno così: “Perché a questo qua, che fa sempre tanti bei discorsi sull’America quando fa l’opinionista, non gli facciamo fare un programma in cui parlarne?”. Si scherza, ma non ci sentiamo di essere tanto lontani dal vero nel pensare a questa battuta come genesi di Inchieste da fermo. Il programma ha debuttato ieri sera in prima serata su La7 e sarà seguito la prossima settimana da una puntata dedicata alla Cina.
Di Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese si parla parecchio negli ultimi mesi in tv, non solo all’interno dei tg. Federico Rampini, che è alla conduzione di questo inedito format, decide di offrire ai telespettatori un racconto a metà tra un TED Talk e una lezione universitaria. Siamo a Bologna, nella cornice dell’Oratorio di San Filippo Neri, allestito per l’occasione a set televisivo. Il pubblico è formato da tanti ragazzi che frequentano l’università pubblica e quelle private nella città felsinea.
Sfruttando una scenografia tanto elementare quanto efficace, con un totem centrale che richiama volutamente la forma di uno smartphone, si cerca di raccontare “a cosa serve l’America”. Se si parte da un’idea del genere, gran parte del lavoro consisterà necessariamente nel capire come svilupparla. Ed è su questo aspetto che nascono i nostri principali dubbi.
In poco più di un’ora e trequarti, viene sviscerato un numero incredibile di temi: si passa dall’economia all’immigrazione, toccando in mezzo tanti altri argomenti come le prossime elezioni presidenziali, la guerra in Ucraina e il movimento Black Lives Matter. Rampini parla di tutto questo appoggiandosi ad esperti che intervengono attraverso delle clip che appaiono proprio sul totem centrale.
Il giornalista, attualmente in forza al Corriere della Sera (neanche bisognerebbe dirlo che La7 e il quotidiano di via Solferino condividono lo stesso editore), per anni nella redazione di Repubblica, porta però con sé anche tante opinioni personali. Si può dire che è il tocco in più che la sua conduzione può garantire. Un’affermazione senz’altro vera, che però dovrebbe tenere conto del modo in cui tali opinioni sono veicolate.
Rampini, infatti, non pronuncia dichiarazioni chiare e dirette, ma lascia filtrare il proprio pensiero nel racconto dei singoli temi. È una scelta legittima, anche comprensibile, che forse però richiederebbe maggior trasparenza. Una dichiarazione d’intenti iniziale basterebbe a chiarire le premesse di quello che si sta per vedere.
Il giornalista non lesina poi di ricordare la sua diretta esperienza personale negli States. È legittimo e comprensibile anche questo, nonostante a volte sembri pleonastico e ridondante l’uso dell’io. Ciò che invece forse funziona maggiormente di Inchieste da fermo è l’intervento degli studenti universitari. Le loro domande, sia a Rampini che all’ospite di turno (nella prima puntata Emma Marcegaglia), arricchiscono la riflessione e spezzano quello che rischia di sembrare, a tratti, un puro sproloquio.
A La7 va il merito di proporre un programma che si stacchi dal genere talk per provare ad offrire qualcosa di nuovo. In questo e nella volontà di occuparsi di esteri, Inchieste da fermo si può mettere a confronto con un programma come CinAmerica. Emerge così come il limite della trasmissione sia il dare vita a nient’altro che uno “spiegone” sull’America, subendo eccessivamente il “peso” del conduttore. Da punto di forza, Rampini rischia, infatti, di trasformarsi in un’ancora che blocca con il proprio pensiero i molteplici sviluppi che il programma potrebbe avere.