L’intervista avviene nel corso della giornata che chi sta dall’altra parte del telefono passa, come al solito, fra i palazzi romani della politica. Tommaso Giuntella, infatti, dal settembre 2020, dopo due edizioni di Agorà Estate, è entrato a far parte stabilmente della redazione di Agorà. Chiamato a seguire soprattutto il racconto della politica, con il tesserino di giornalista professionista dall’aprile 2022, Giuntella racconta a TvBlog il suo cammino professionale fino ad oggi.
I tuoi esordi nel mondo della televisione non sono legati al giornalismo. Quando e come avvengono?
Ho iniziato a lavorare per la Rai a ventuno anni, quando ancora studiavo. Ero stagista all’interno di una produzione estiva curata da Endemol che sostituiva per alcune settimane Un posto al sole. Lavorai con Simona Ercolani, che era sempre presente e considero come una dei miei grandi maestri. Capii cosa significava stare con le mani alzate tutta la notte per tenere il boom (microfono utilizzato per le riprese, ndr) e tornare a casa e non riuscire neanche ad abbassarle (ride, ndr). Feci poi anche altre cose sempre di servizio in altre produzioni, nelle quali cercavo di rubare con gli occhi tutto quello che vedevo.
Il tuo arrivo in Rai risale al 2012. Come andò?
Quell’anno entrai a Rai Digital nella piccola e nuova direzione Rai Nuovi Media. Il mio primo lavoro è stato per il portale Nuovi Talenti, in cui ci si poteva candidare, mandando un video, per diverse categorie: canto, conduzione, recitazione. Lì ci inventammo di fare un concorso interno del più votato: andavamo così poi a intervistarlo e a fare una clip di ricostruzione della sua vita. Rai Nuovi Media si trasformò in seguito in Rai Play e lì mi occupai del taglio delle clip da caricare sul portale. Questo lavoro l’ho fatto fine al 2018.
In quell’anno arrivò, infatti, per te una nuova opportunità, tornando a lavorare alla produzione di un programma.
Si trattava di I dieci comandamenti di Domenico Iannacone, che per me rimane un grandissimo maestro, un poeta raffinatissimo della tv: i suoi insegnamenti li porto ancora con me. Con lui facevo da apripista rispetto ai luoghi in cui sarebbe dovuto poi andare per le riprese. Facevo dei sopralluoghi in cui stavo tre giorni a parlare con le persone, poi arrivava Domenico per le riprese e in soli dieci secondi riusciva con uno sguardo o una parola a tirare fuori un tesoro di umanità incredibile. Quando I dieci comandamenti è diventata una produzione esterna, essendo diventato programmista regista Rai, non ho potuto continuare con lui e così sono arrivato nel gennaio 2019 a Mi Manda Rai Tre.
Che step ha rappresentato per la tua carriera Mi Manda Rai Tre?
Mi Manda Rai Tre è stata un’altra grande scuola, un’altra grande palestra. Salvo Sottile mi ha insegnato che un bravo conduttore deve essere prima di tutto un bravo autore. Lui è uno che ha uno sguardo autoriale: ha una capacità di gestione dei tempi e della diretta pazzesca. Con uno sguardo all’orologio e uno al copione, tiene lo studio e capisce dove portare il discorso con gli ospiti. La sua Mi Manda Rai Tre era un piccolo gioiello. Per me è stata un’esperienza di vero servizio: ho ancora degli anziani, che abbiamo seguito, che mi scrivono. Lavoravo in redazione, ma sentivo che mi mancava andare in giro come avevo fatto con Domenico. Così alla fine del primo anno sono riuscito a girare il mio primo pezzo per Mi Manda Rai Tre.
Al termine di quella stagione arrivò la tua prima esperienza ad Agorà, nella versione estiva. Come andò quella prima volta?
Alla conduzione quell’estate c’era Monica Giandotti, che ha creduto molto in me ed è stata la prima a mandarmi in giro come inviato. Dopo i primi pezzi si trovò una sintonia, che ancora c’è, e lei mi chiese di continuare a fare l’inviato anche quando ad agosto avrei invece dovuto ricoprire il ruolo di coordinatore della redazione. Finita quell’esperienza estiva sono tornato a Mi Manda Rai Tre, nonostante ad Agorà avevano cercato di tenermi per l’edizione invernale. In quell’edizione però svolsi a tempo pieno il ruolo di inviato, anche se con lo scoppio della pandemia ci riconvertimmo subito e iniziammo ad occuparci del Covid. Quando a Mi Manda Rai Tre finì la gestione di Salvo, ci fu la dispersione di quella che era stata una grande squadra.
Avevi trovato altri riferimenti, oltre a Sottile, in quell’anno e mezzo?
Lì ho avuti tanti maestri: Gianluigi De Stefano, che era l’autore degli inviati, e Luca De Risi. Spesso nei programmi d’approfondimento ci sono molti giornalisti, ma manca l’occhio televisivo, quella parte autoriale che lavora sul racconto per le immagini, sul gusto per le immagini e per la musica. De Risi, che ora è a Frontiere, ma è stato anche ad Agorà, mi ha incoraggiato a cercare sempre più livelli di racconto.
Arrivi al giornalismo dopo un’esperienza anche importante in politica (nel 2012 coordinatore nazionale del comitato di Bersani per le primarie e poi presidente del Pd romano dal 2013 al 2015). Come riesci a mantenere un equilibrio di fronte ai fatti che racconti?
La politica è stata una parentesi in cui io mi sentivo un agente estraneo. Mi sono reso conto, infatti, che mi piaceva più raccontarla perché per farla devi avere diversi talenti che io non ho, primo fra tutti il senso di appartenenza. Ho avuto poi una formazione che mi ha portato ad avere idee forse vecchie, sicuramente sempre contaminate tra di loro. Questo mi porta continuamente ad osservare le cose con uno sguardo al di fuori. Da quando ho preso il tesserino, mi sono poi imposto di stare molti passi indietro rispetto agli amici che ho nei diversi partiti perché penso che sia giusto così.
Hai alle spalle una figura storica del giornalismo italiano, tuo padre, Paolo Giuntella. Hai mai percepito di avere il fardello di questa eredità e questa eventuale responsabilità è mai arrivata a gravarti eccessivamente?
L’eredità di mio padre è sicuramente un’eredità pesante, nel suo senso positivo. È un personaggio con cui non puoi non confrontarti perché se lo ricordano tante persone che incontri in questo mondo. La cosa che mi fa piacere è che le persone che lo ricordano con più affetto sono gli operatori e gli assistenti di ripresa, le persone con cui lavorava ogni giorno. Mio padre non voleva che io facessi il giornalista e questo probabilmente è uno dei motivi per cui ho iniziato dalla tv e non dal giornalismo. Era un uomo che aveva un’etica incredibilmente forte e non voleva che qualcuno potesse pensare che lui mi avesse aiutato nel fare il suo stesso lavoro.
Eppure, già prima che venisse a mancare, tu avevi intrapreso questa professione.
Avevo iniziato ad occuparmi di tv, ma mi interessava scrivere. Mi ero trovato, quindi, da solo dei lavoretti nei quotidiani l’Unità e Europa. Quando da un ufficio stampa, in cui ho fatto un periodo di lavoro, il capo ufficio stampa chiamò mio padre per complimentarsi di me, lui, imbarazzatissimo, chiuse subito, per amore. Solo dopo che morì, scoprii da Chiara Geloni, allora vicedirettrice di Europa, che mio padre l’aveva chiamata per dirle: “Scrive meglio di me, però ti prego di non dirgli questa cosa”. Poi trovai in un suo cassetto tutti i miei articoli che si conservava gelosamente. Non me lo voleva fare sapere, ma mi seguiva.
Una settimana fa hai ricordato in un post Instagram i quindici anni dalla sua scomparsa. Qual è il lascito sia umano sia professionale più importante che ti ha donato?
Umanamente è sicuramente il modo di stare con le persone: contornarsi di amici anche sul lavoro, preferire la solidarietà e lo stare bene piuttosto che tentare di prevaricare gli altri. Lui ha sempre messo al centro del proprio servizio il pubblico, verso il quale ti devi porgere come servitore. Proprio per questo mi ha insegnato che questo lavoro si fa meglio se ci si aiuta, anche con gli altri colleghi. Anche con chi lavora per le trasmissioni concorrenti, viene prima la solidarietà e il rapporto di amicizia che si è creato. Mi ha insegnato ad aggiungere sempre anche un pizzico di ironia e di colore nei pezzi che faccio. Un operatore che lavorava con lui mi racconta che andavano a Napoli, a Forcella, accendevano la telecamera e i pezzi si scrivevano da soli. Quando passo da Napoli, vado sempre a Forcella e faccio anch’io la stessa cosa.
Questa che si sta per concludere è stata la tua terza stagione invernale di Agorà. Hai un obiettivo che ti piacerebbe raggiungere all’interno del programma o al di fuori?
Mi sono sempre sognato nel ruolo che ricopro ora, un ruolo che ho raggiunto e perfezionato con il supporto di Irene Benassi, che da inviata è diventata coordinatrice degli inviati di Agorà nel 2021. È con lei, infatti, che ho iniziato a fare i pezzi politici e senza i suoi incoraggiamenti non avrei trovato la mia cifra. Al di là del programma, vedersi in un’altra fascia oraria o in un altro ruolo, in un altro posto, anche in studio, è qualcosa che mi piacerebbe. Non sento però arrivata l’esigenza di cambiare, anzi sento ancora di poter crescere facendo quello che faccio oggi. Poi, magari, consolidata la mia crescita qui, mi piacerebbe sperimentare qualcosa di diverso, probabilmente altrove. Sicuramente la stagione che viene e magari anche quella dopo posso prenderle per consolidarmi. Anche se, questo non dipende solo da me.
Visti i tempi che corrono, dalle parti di Palazzo Chigi sanno già che hai avuto un passato in politica? Perché magari un inviato di un programma che si occupa di politica che è stato presidente del Pd romano non è così ben visto…
Io e Francesca (Martelli, ndr), che siamo qua tutti i giorni, abbiamo un ottimo rapporto con tutte le forze politiche. Quando incontro anche esponenti della maggioranza, ci viene riconosciuta la lealtà che abbiamo nei confronti degli spettatori, mai del potere. Non credo quindi che avremo problemi neanche in futuro.