Con più di dieci anni di carriera televisiva all’attivo, quest’estate è stata sicuramente quella più ricca di impegni per Angela Rafanelli, che non solo è stata riconfermata per il terzo anno consecutivo alla conduzione di Linea Verde Estate (“rimango stupita ogni volta che me lo chiedono ogni anno: non l’ho do per scontato mai”), ma è riuscita a realizzare anche la prima edizione di Sex, un programma che sogna da otto anni. Abbiamo deciso quindi di ripercorrere con lei il cammino professionale che l’ha portata oggi ad affermarsi con due diversi programmi in Rai.
In molti probabilmente non lo sapranno, ma la tua carriera è iniziata al Piccolo Teatro a Milano. Come sei passata da quel mondo a quello della televisione?
Fare teatro era sempre stato il sogno di mio babbo, che però non era riuscito a portarlo avanti perché mia mamma gli aveva messo davanti la scelta fra lei e il teatro. Quando ho iniziato a fare teatro, a me piaceva molto lo stare con gli altri e la condivisione del risultato di un lavoro di gruppo. La carriera da attrice però, nonostante avessi avuto la fortuna di entrare al Piccolo e di lavorare con dei grandi come Ronconi e Wertmuller, era come se non riuscisse a partire: era tutto molto faticoso e soprattutto non riuscivo mai ad esser felice per quello che facevo. Allora mi sono messa a cercare di capire che cosa mi piacesse davvero fare: chiacchierare, ascoltare le persone e viaggiare. Ero certa che queste passioni corrispondessero a un lavoro e senza domandarmi quale fosse ho iniziato ad accettare tutti i provini che mi furono proposti, anche quelli che non riguardavano il teatro. Così mi ritrovai in una settimana a fare tre provini: uno per il teatro, uno per una fiction e uno per la tv. Rimasi soddisfatta di tutti i provini perché per la prima volta mi ero presentata per come ero realmente: andai con un paio di jeans, delle scarpe da ginnastica e con i capelli corti. Gli unici che poi mi chiamarono furono quelli di Current, che ai tempi doveva essere l’MTV dell’informazione: lì mi sono sentita centrata e ho capito che comunque l’esperienza del teatro era stata fondamentale. Oggi a una persona che volesse fare televisione consiglierei prima di fare teatro e studiare.
Il primo approdo è stato Current, ma il grande salto professionale è avvenuto con Le Iene. Che cosa ha rappresentato per te il programma di Davide Parenti?
Per me Le Iene sono state come un master: hanno un approccio molto teatrale e quindi sono state in qualche modo la diretta continuazione di quello che avevo iniziato a fare al Piccolo e che era poi proseguito per una strada diversa a Current. Sono arrivata a Le Iene grazie a Tina, che mi affittava l’appartamento dove vivevo a Milano. Lei si era trasferita a Buenos Aires e quando tornò a Milano e la incontrai per la prima volta di persona mi disse che lavorava per l’ufficio legale delle Iene. Mi propose di incontrare Davide Parenti, ma io non pensavo che sarebbe mai realmente avvenuto quell’incontro. Lo incontrai per la prima volta il 10 agosto del 2009 in un bar di Milano per proporli tre servizi, fra i quali il primo che feci, ovvero quello sull’utero in affitto. Dieci giorni dopo partivo per l’India insieme a Marco Fubini e dà lì sono entrata a far parte di quella grande famiglia che sono Le Iene. È lì che ho capito che per me televisione era soprattutto servizio pubblico: mi proposero di fare i lanci dei servizi per permettermi di andare in onda anche quando lavoravo per lunghe inchieste, ma mi rendevo conto che nel farlo ero sempre eccessiva e stonata. Così ho capito che mi piaceva andare in onda quando portavo qualcosa di cui sentivo l’urgenza e non andare in video solo per mettere in mostra me stessa.
L’esperienza a Le Iene è terminata nel momento in cui si è esaurito quello che tu potevi dare al programma, e viceversa, oppure è un’esperienza che sarebbe potuta proseguire?
Avevo fatto quello che allora era il secondo servizio più lungo della storia delle Iene, Strategie di un pedofilo, un servizio di 40 minuti che aveva fatto il 27% di share, con tanto di telefonata di Berlusconi al mio capo per congratularsi. Credo che le cose vanno lasciate quando vanno bene, così nel caso un giorno puoi anche ritornare. Mi ero però anche resa conto che quando sceglievo i servizi da fare o rivedevo i servizi una volta girati prevaleva sempre la paura, sia per quello che sarei dovuta andare a fare sia per quello che avevo già fatto. Così ho capito che forse era arrivato il momento di lasciare: non è stato emotivamente facile, ma a volte le famiglie vanno lasciate, altrimenti non si cresce mai.
Tre edizioni di Quelli che il calcio, una stagione a Domenica In. Il ruolo da inviata ti è sempre calzato a pennello o ci sono stati momenti in cui avresti voluto qualcosa di più?
Fare l’inviato non significa avere un ruolo sminuente, io credo che anzi sia sottovaluto: molte volte è più difficile essere un buon inviato piuttosto che un buon conduttore. Non ho mai pensato quindi che ci fosse una serie a e una serie b. Quando ero a Quelli che il calcio, sono stata orgogliosissima di portare nella prima edizione l’attualità, così come di portare l’arte contemporanea con Francesco Bonami. A Domenica In ho avuto un ruolo più balbuziente, perché il ruolo di inviato non era stato messo a fuoco in un programma che già di per sé mancava di una struttura forte. Ho avuto però così la fortuna di entrare in studio e vedere dal vivo una macchina importante al lavoro, oltre che conoscere persone come Adriana Panatta e Claudio Lippi.
Nel 2020 quando ti è arrivata la proposta per Linea Verde Estate hai subito accettato?
Ero in treno e stavo raggiungendo mia mamma a Livorno. Era una situazione un po’ particolare: era il mio primo treno dopo i mesi di lockdown ed andavo da mia mamma che non stava molto bene. Mi chiamò Angelo Mellone, che allora non conoscevo, e mi propose Linea Verde Estate. Risposi subito di sì, ma non pensavo fosse già una proposta ufficiale: lui aveva invece già dato per confermata la mia presenza. Venivo da un periodo in cui avevo fatto solo la radio e ricordo ancora che con il mio agente avevo sputato lacrime e sangue perché avevo bisogno di tornare a lavorare in tv.
Come è stato per te l’ingresso nella famiglia di Linea Verde?
Linea Verde per me è stata come un’illuminazione: era un programma che conoscevo, seguivo e ammiravo, ma al quale non avrei mai pensato di poter contribuire. Negli anni però dall’agricoltura si è ampliato e ha portato nelle case anche l’umanità delle persone: per me Linea Verde è una scusa per raccontare la nostra storia.
In questa estate è arrivato anche Sex, un programma che è da otto anni che volevi portare in onda. Com’è ora vedere questa creatura appena nata, dopo averla sognata e immaginata tanto a lungo?
La mia preoccupazione ora è quella di non vedere spegnersi quella fiammella che abbiamo acceso. Sono contenta di essere riuscita a dimostrare che si può fare tranquillamente un programma che parli di sesso senza che ci siano i fuochi d’artificio o altro. Il nostro alla fine è un programma di scienza e infatti non ci sono state polemiche per quello di cui ci siamo occupati.
Dopo Sex c’è un nuovo obiettivo professionale che vuoi raggiungere?
Obiettivo professionale no, ci sono però dei temi, come la malattia mentale e la morte, di cui mi piacerebbe occuparmi per togliere dei tabù. Io vorrei intanto continuare a fare Sex come Sveva Sagramola fa Geo.
Vuoi che Sex diventi il tuo programma.
Non per forza il mio, io posso anche rimanere a fare solo l’autrice e lo può condurre anche qualcun altro. L’ho sempre detto in questi otto anni: non devo per forza farlo, l’importante è che si faccia perché è necessario.
Con il direttore Coletta quindi tornerai alla carica per realizzare almeno una seconda edizione?
Sicuramente non sarà una messa in onda di sei puntate a fermarmi, altrimenti significherebbe che per me questo era solo un programma televisivo, mentre invece è una missione. Abbiamo fatto che si può fare, che c’è una base su cui poter lavorare: va fatto!