Cucine da Incubo, Antonino Cannavacciuolo: “Non è un programma tv, è la vita di tante famiglie. Ma non faccio miracoli”
“Cucine da Incubo mi fa stare bene”, dice Chef Cannavacciuolo. E smentisce l’addio a MasterChef: “Ho firmato per altri due anni”.
“Immagina di lavorare come un pazzo e di non ricevere lo stipendio a fine mese. Come si vive? Che sensazione provi? Ecco, questo è Cucine da Incubo…”
Non c’è sintesi migliore per spiegare cosa sia Cucine da Incubo. E non è un caso che a parlarne così sia Antonino Cannavacciuolo, che ormai 10 anni fa ha raccolto la sfida di condurre il popolare format di Gordon Ramsay adattandolo fin da subito alla sua personalità, facendo sì che gli calzasse sempre più come un guanto. Al di là della simpatia dello chef, al di là di una confezione che ha saputo sempre bilanciare disperazione e allegria in tutte le sue versioni – dalle prime realizzate per Fox a quelle per Discovery, sempre preparate da Endemol Shine Italy – Cucine da Incubo è un format difficile, doloroso, emotivamente impegnativo e lo spiega bene proprio lo chef pluristellato in una round-table alla vigilia della nuova edizione, in onda in anteprima giovedì 31 marzo alle 20.00 e poi in programmazione regolare da domenica 3 aprile alle 21.15 su Sky Uno, in streaming su NOW e sempre disponibile on demand.
“È un programma tv e nello stesso tempo non è un programma tv… Il fatto che queste storie vadano in televisione non vuol dire che la fatica, la disperazione, i pianti non siano veri”
racconta lo chef con la passione che gli è propria e quella dolcezza che neanche ‘paccheri e allucchi’ (ovvero schiaffi e urla per chi è esterno alla Circumvesuviana) possono dissimulare. Proprio per questo carico emotivo, per questa continua full immersion nelle vite di imprenditori (e famiglie) in difficoltà, nel 2018 Cannavacciuolo ha detto basta e ha messo da parte il programma che lo ha lanciato come personaggio tv.
“Ero stanco di Cucine da incubo – confessa con la sincerità che lo contraddistingue – È un programma emotivamente faticoso perché entri nei problemi veri delle persone, affronti la loro disperazione, le vedi piangere dietro le quinte perché sanno di essere sul punto di perdere tutto e capisci quel che stanno passando. E per come sono fatto io, questo peso me lo porto addosso. Ero stanco, era diventato tutto molto pesante e mi rendevo conto di non avere più molto da dare. Non avevo più slancio, non avevo più motivazioni. Questo, invece, è un programma che ha bisogno di energia, di positività. E così ho detto basta. Devi sapere anche quando fermarti”.
Così il format tanto amato è andato in pausa. Quattro anni di altri progetti – non solo televisivi, ma soprattutto professionali che si sono tradotti in 9 locali e in oltre 250 persone impiegate, con un nuovo progetto al via in Toscana – e una crescente richiesta da parte del pubblico e dei ristoratori per un ritorno, hanno poi spinto Cannavacciuolo a riprendere il suo viaggio in Italia.
“È stato bello ricominciare, perché Cucine da Incubo vuol dire aiutare famiglie e aziende in difficoltà. C’è tanto dietro questo show, tantissimo che non si vede. Noi abbiamo una sola settimana per realizzare la puntata e rimettere in carreggiata il locale: il tempo è poco. E allora spesso capita che mi porti gli chef a Villa Crespi per mostrare loro qualche piatto, capita che dica alla produzione di aggiungere qualcosa al makeover, che metta in contatto i ristoratori con qualche fornitore. Insomma, quel che si vede in tv è solo una parte di quel che rappresenta Cucine da Incubo. Alla fine l’ho ripreso perché mi fa stare bene. Dopo una settimana a dare una mano per ripartire torno a casa e sto bene…”.
In tutto, questa nuova edizione conta 6 puntate e non 10 come in precedenza. E se negli anni difficili portare a casa 10 puntate era un’impresa, ora queste 6 puntate sono corse via velocemente:
“Quando ha voglia di fare le cose, il tempo passa senza neanche che tu te ne accorga. Le registrazioni sono andate velocissime, l’ultima risale a un mese fa. Ci tengo a dire che non c’è stato neanche un caso di Covid in tutta la produzione: vuol dire che le cose si possono fare se sono fatte bene”.
E questo sembra valere anche per le cucine in pandemia. Tante le polemiche in questi due anni sui protocolli considerati capestro, tante le attività che hanno chiuso. Ma il Covid non sembra essere il clou di questa edizione: già dalla prima puntata, ambientata a Como, sembra che tutto ruoti piuttosto sulle solite, ma sempre istruttive, dinamiche di famiglia.
“Il format non è cambiato: la catena infinita è quella dei padri che non hanno fiducia nei figli, dei genitori che si ostinano a seguire la propria idea di cucina anche se è vecchia di 40 anni, dei figli che soffrono perché non vengono valorizzati, di mogli e madri che si devono sobbarcare le difficoltà. Il Covid, alla fine, ha fatto un po’ una selezione: chi è rimasto aperto evidentemente qualcosa di buono ha fatto nel suo passato. Ma questo si vede anche con i ristoranti che hanno partecipato al programma: se dietro c’è un ristorante con una storia, una tradizione di famiglia, una gestione di lungo corso allora posso dire già alla fine delle riprese che proseguirà il suo cammino. Ma se si tratta di attività improvvisate, senza preparazione, allora non c’è Cannavacciuolo che tenga. Io non faccio miracoli!“.
E su questo punto Cannavacciuolo torna più volte: miracoli non se ne fanno e partecipare al programma non equivale a bagnarsi nella piscina di Lourdes.
“Io non faccio magie, non faccio miracoli. Quel che posso fare è mettere a disposizione i miei 24 anni di esperienza. Ti dico qual è l’errore e anche come non farlo più, perché io quell’errore l’ho già fatto. E bisogna saper ridare la motivazione per stare aperti, per fare quel mestiere”.
In pratica, un reset, una via di uscita dal vortice della disperazione:
“Io cerco di riportarli al punto di partenza, ai primi giorni, all’entusiasmo dell’inizio. Cerco di rimetterli in pista dopo il buio della disperazione. Ma poi sta a loro: se uno è intelligente e ha capito che saper cucinare non basta per aprire un ristorante allora va avanti, altrimenti non c’è niente da fare. Vale anche per chi funziona: se entri nella comfort zone, se smetti di fare quel che devi perché pensi di essere arrivato, allora è finita. Devi pulire sul pulito, devi smontare la cucina e pulire tutto ogni sera, non importa quanto tu abbia successo. Se ti adagi è finita”.
Al telespettatore solitamente sembra impossibile che un’attività arrivi a tale stato di ‘degrado’, in cucina e in sala. Ma Cannavacciuolo riesce a riportare tutto alla ‘bigger picture’: quel che vediamo è il risultato di una spirale che cancella tutto, che acceca, che spegne ogni lucidità.
“Come si arriva a locali così? Ci si arriva perché spesso non si capisce che saper cucinare non vuol dire che puoi aprire un ristorante. Ma una volta che hai aperto, quando fai la spesa e nessuno entra dalla porta inizi a vedere nero. Devi pagare le bollette, il personale, hai il cibo in frigo che va a male, sono soldi persi. E quando entra qualcuno, magari si lamenta perché il prodotto non è buono, gli ingredienti non sono freschi. Entri in un vortice di spese e di preoccupazioni che fanno male. Tutto il resto va in secondo piano: la polvere in sala, la sporcizia in cucina, il servizio va tutto in secondo piano. Sei in una spirale di disperazione”.
Cucine da Incubo prova, quindi, a invertire il vortice, ma quel che interessa allo chef – e che ne accende l’animo anche in un incontro con la stampa che sembra diventare l’occasione giusta per far capire al pubblico cosa sia davvero la ristorazione – è spiegare cosa voglia dire davvero aprire un ristorante, visto che il settore è sempre più terreno di improvvisati e di inconsapevoli.
“Io non mi sognerei mai di fare il dentista, né di fare il calciatore perché so tirare due calci in cortile. Invece tutti pensano di poter aprire un ristorante. Ma prima di saper cucinare, per aprire un ristorante bisogna saper fare i conti, soprattutto oggi. Bisogna saper conoscere il proprio territorio, bisogna fare un piano di costi e di gestione, bisogna essere disposti a ricercare i migliori prodotti, a diventare amico dei fornitori, saper riconoscere la qualità. Io sono capace di tirare sul prezzo per settimane quando si tratta di comprare mobili o stoviglie: in quel caso sono una tigre. Ma se si tratta di ingredienti divento un agnellino: non tiro neanche su un centesimo, perché so cosa vuol dire coltivare, allevare, trasformare prodotti di qualità”.
È così chiaro e ‘agguerrito’ sulla questione da far immaginare subito la possibilità tutto questo possa diverntare un nuovo format, una ‘guida’ per aspiranti ristoratori. Non un format alla Restaurant Startup dell’amico Joe Bastianich o Un menù da milionari (My Million Pound Menu, su Netflix) che guardano più al coinvolgimento di investitori esterni che alla ‘formazione imprenditoriale’ nel settore della ristorazione. In fondo anche Cucine da Incubo ha insegnato tanto, negli anni, anche a chi non vi ha partecipato. Lo stesso Cannavacciuolo si è stupito nel trovare nei ristoranti menu di poche portate, diversamente da quanto avveniva qualche anno fa, quando i menu erano di 20 pagine e in cucina si buttavano tonnellate di cibo.
“Quando vedo menu piccoli, con poche portate, penso che 10 anni di Cucine da incubo sono serviti! Avere una scelta tra pochi piatti vuol dire guardare al km zero, vuol dire risparmiare, vuol dire non sprecare…”
ribadisce lo chef, che adesso sembra voler ‘prevenire più che curare‘. Ma l’ipotesi di un format tv sulla ‘prevenzione’ – magari scritto da lui che già diede l’idea di ‘O mare mio – non è contemplata. In primis perché non c’è standard che tenga: ogni progetto è figlio di quel determinato territorio. Lo spiega bene raccontando qualcosa della sua prossima apertura, che lo vedrà in Toscana:
“Prima di aprire ho fatto un’analisi di mercato, ho visto l’offerta disponibile in un certo raggio, sono andato a conoscere il territorio. Il primo guadagno è nella ricerca: se capisci chi e cosa hai a disposizione, come risorse e come fornitori, hai già ridotto la filiera, hai già risparmiato. Nulla si improvvisa. La cucina è ricerca, è viaggio, è conoscenza, è sperimentazione: non dobbiamo mai fermarci alla superficie”.
Sembra quasi banale, ma non è così. Lo ribadisce ricordando proprio un’esperienza fatta con Cucine da Incubo:
“C’era questo ristorante che si spacciava per biologico, ma non funzionava. Quando sono andato in cucina ho trovato solo 4 ingredienti davvero biologici. Eppure a poca distanza c’era una grande azienda biologica: gliel’ho detto io, loro non avevano idea che esistesse. Come puoi pretendere di funzionare?”
Tanta impreparazione, tanta improvvisazione, tanta presunzione, poca dedizione e poca conoscenza sono i veri mali, dunque, di un settore che è sempre più competitivo e sempre più arrogante. E quello del ristoratore è un mestiere che non ammette errori, soprattutto quando si è al top:
“Noi siamo giudicati tutti i giorni, due volte al giorno. Se sbaglio a mettere il sale in un piatto rischio di bruciare 30 anni di carriera. È un mestiere terribile da questo punto di vista, con uno stress mentale incredibile. Ma quando un ristorante va bene è una grande soddisfazione: i complimenti sono la nostra benzina. Senza quelli si fa fatica a ripartire ogni giorno”.
E si torna a quel bisogno di motivazione che spinge a fare sempre meglio e anche all’idea che questo è un mestiere che devi sentire:
“Io in cucina sono felice, sto bene. Dico sempre di voler andare in vacanza, ma quando stacco dopo tre giorni sono già lì a pensare a nuove ricette, a sperimentare. Ci sono tanti che lo fanno per moda e si fermano ai tavoli pieni. Ma quello non aiuta. È una lettura superficiale, che può essere legato a un momento. La cucina è molto di più”.
Quel che torna in Cucine da Incubo ma anche nella storia dello chef è la famiglia: quando gli si chiede quale sia stato il miglior complimento ricevuto in carriera non scomoda guide stellate o critici blasonati, ma il suocero…
“Era il 1995-1996. Lavoravo in un albergo sul Lago d’Orta e quando chiuse per la pausa invernale trovai lavoro a Villa Crespi come chef di partita. Il proprietario, che allora non era ancora mio suocero, per mettermi alla prova mi chiese un risotto: a un certo punto lo sentii urlare ed entrare in cucina facendomi i complimenti! “Non mangiavo un risotto così buono da anni! Non pensavo che un napoletano potesse fare un risotto così!”. Lo ricordo ancora e credo sia stato il complimento più bello. Quel risotto, in fondo, mi ha cambiato la vita…”.
Quell’esperienza portò alla conoscenza di Cinzia, che sarebbe poi diventata sua moglie e madre dei suoi due figli con la benedizione del suocero che aveva respinto tanti ‘pretendenti’, ma che non ebbe obiezioni di fronte a quel ragazzone solido dalle mani d’oro.
“Si dimentica che stare in cucina vuol dire anche stare lontano dai propri figli. Io ho vissuto in una famiglia felice, di gente solida, legata alla terra: sono cresciuto con nonna Fiorentina (che ha omaggiato con un menu nel suo Laqua Countryside, aperto sulla sua Costa Sorrentina), centenaria, che mi ha insegnato tanto e della quale sento ancora la voce ogni tanto, soprattutto quando sto per esplodere per qualche motivo. In quel momento penso alle sue parole, sento la sua voce e mi calmo, rifletto, mi fermo…”
e si sente la voce intererirsi.
“La mia famiglia non mi ha fatto mancare mai nulla, mi è stata sempre dietro, mi ha dato tanto. E io ora cerco di farlo con la mia…”
dice lo chef. In Cucine da Incubo ci sono le storie delle famiglie protagoniste che cercano un nuovo inizio, ma c’è anche tutta la storia di Antonino Cannavacciuolo: c’è il suo carattere, ci sono le sue radici, c’è tutta la sua esperienza sincera. E si sente. Ecco perché il programma piace ancora e funziona sempre. Ad maiora, semper.
PS. A proposito, non temete: ritroveremo Antonino Cannavacciuolo anche a MasterChef Italia. Ha firmato per altri due anni! Ammèn!