Classe 1979, Federico Ruffo da alcuni anni è diventato a tutti gli effetti un volto televisivo, dopo aver smesso di vestire i soli panni di giornalista d’inchiesta prima a Presa diretta e poi a Report. Dall’edizione 2020-2021 è alla conduzione di Mi manda Raitre, che da quest’anno conduce in solitaria, dopo il cambiamento di collocazione subito dal programma (ora va in onda il sabato e la domenica mattina).
La tua carriera giornalistica prende avvio da un fatto di cronaca nera, che ti scuote profondamente perché ha come protagonista il fratello di una tua storica compagna di scuola. Il giornalismo parte per te dall’interrogarti sulla realtà che ti circonda: è sempre così?
Se non è così, dovrebbe esserlo. Io sfuggo a un po’ di stereotipi sul giornalismo: non vengo da una famiglia che appartiene a questo mondo, non ho studiato in grandi università, non ho mai coltivato contatti con la politica. Questo è figlio del fatto che ho deciso di fare un percorso diverso, che rivendico con grande orgoglio. Credo che però il giornalismo non sempre si interroghi sulle cose cha accadono intorno a noi: spesso negli ultimi anni, come categoria, ci siamo occupati di cose che piacciono a noi, rinchiudendoci in un microcosmo che però rischia di generare mostri, ovvero persone che preferiscono informarsi affidandosi a fake news o a notizia manipolate.
Il tuo percorso in Rai parte dove oggi sei tornato, ovvero a Mi manda Raitre. Alla conduzione, quando sei arrivato per la prima volta, c’era Andrea Vianello e negli anni hai avuto come caporedattore Stefano Coletta, attualmente direttore di Rai 1. Che ricordo hai dei due e di quei primi anni?
Mi manda Raitre era il primo incarico in Rai di certo un tipo. Guardavo Andrea, che oggi è un amico, un po’ come si guarda un padre: aveva capito che non avevo bisogno di imparare tanto il mestiere, quanto a muovermi all’interno di una dimensione a me estranea come quella della televisione pubblica. Stefano invece ci rimetteva in riga e mi ha insegnato soprattutto tre cose fondamentali: leggere la curva degli ascolti, esercizio fondamentale, l’arte della prudenza, nel limare il linguaggio cercando di utilizzare i termini più appropriati per descrivere una determinata situazione, e soprattutto la conoscenza del pubblico Rai.
Fra le esperienze fondamentali per la tua crescita hai citato spesso in passato Crash di Valeria Coiante. Perché questo programma è stato così importante per te?
È stata la prima volta che ho avuto la totale libertà di esprimermi. Crash era un programma di inchieste con un minutaggio lungo e lì ho così imparato che potevo avere una mia cifra stilistica e che soprattutto è necessario costruire una narrazione efficace per un’inchiesta. Valeria mi ha sempre lasciato libertà nel scrivere e nel montare come volevo: questo mi ha permesso di capire dove sbagliavo e correggermi in corso d’opera.
Presa diretta e Report sono state poi le tue due palestre professionali più importanti, con Riccardo Iacona e Sigfrido Ranucci come maestri. Quali sono le qualità dell’uno e dell’altro?
Riccardo è il miglior reportagista del giornalismo italiano: da lui ho imparato a montare e a sceneggiare un’inchiesta. Riccardo è uno anche burbero, ma quella lezione mi è servita e oggi che sono dall’altro lato della scrivania ho capito che l’informazione non concede il tempo per essere diplomatici e purtroppo a volte bisogna essere categorici. Sigfrido ha avuto la capacità di ereditare un programma che era una colonna portante per quest’azienda ed è stato in grado di rimodularlo senza stravolgerlo. Da tutti e due ho imparato la dedizione totale che è richiesta a chi tiene le redini di un programma: entrambi entravano ed entrano tutt’ora in montaggio all’alba e non escono prima di sera, controllando tutto quello che va in onda. Ho capito che questa è l’unica maniera per sentirsi a posto con la propria coscienza.
Nel 2016 ti viene proposta la conduzione di Il posto giusto. Tu inizialmente rifiuti: che cosa ti spaventava nel passare alla conduzione?
In quel momento avevo lasciato Presa diretta ed ero tornato a Report, dove avevo lavorato alcuni anni prima con Milena Gabanelli. Quando Daria Bignardi mi propose Il posto giusto, lo fece in un ottica di ringiovanimento del parco conduttori, cosa che apprezzavo molto. Quando però fai inchiesta la tua ambizione è avere un giorno un programma di informazione tuo, mentre in quel caso mi veniva proposto un programma di servizio che si occupava di un tema che conoscevo poco. Avevo paura di fare una stupidaggine, cedendo al narcisismo di andare in video. Poi grazie all’insistenza di Daria e dell’allora capostruttura Elsa Di Gati mi sono convinto, anche perché non ho dovuto abbandonare Report. La conduzione come prospettiva mi entusiasmava molto meno di quello che facevo allora, ma ho scoperto che esiste della bellezza infinita anche nel fare tv andando ad esempio ad adattare un format e cercando ogni volta di capire cosa funziona e cosa no. Con l’allora capoprogetto Pablo Rojas abbiamo avuto totale libertà di sperimentare, puntando anche sull’inserimento di spazi comici con volti allora emergenti come Valerio Lundini, Michela Giraud e Edoardo Ferrario.
Nel 2020 viene affidata a te e a Lidia Galeazzo la conduzione di Mi manda Raitre. Come hai vissuto questo ritorno a casa e com’è andata quella prima edizione?
È stata una fatica immensa perché la quotidiana è tutta un’altra storia e ti devi confrontare con cose con cui prima non ti sei mai dovuto confrontare. Ho imparato a gestire un po’ di fango. La cosa che mi ha ferito di più è essere stato tacciato di essere un raccomandato, un’accusa che mi spezza il cuore perché sono e rimango figlio di operai – mi sarebbe piaciuto tanto essere raccomandato: mi avrebbe accorciato la gavetta e mi avrebbe permesso di essere più in alto ora.
Con la nuova edizione partita a settembre hai recuperato la dimensione dell’inchiesta e ti sei cucito – mi pare – un programma a tua immagine e somiglianza. È così?
Qualunque cosa avessimo fatto e qualunque fosse stata l’intenzione dietro alla decisione di spostare Mi manda Raitre al sabato e alla domenica, comunque da fuori sarebbe stata vista come una bocciatura. A farmi accettare quindi nuovamente la conduzione è stata la prospettiva di poter cambiare il programma, facendolo con una durata maggior e con un maggior racconto di inchiesta e approfondimento. Mi è stata data quasi totalmente carta bianca: l’unica attenzione che devo prestare sempre è quella legata alla fascia oraria in cui andiamo in onda. Il programma è per il 98% quello che abbiamo disegnato quest’estate e io mi sento molto di più nelle mie corde. C’era grandissimo scetticismo: l’aspettativa di rete era attorno al 2,5-3% e noi ora siamo nettamente sopra.
Non hai mai esitato ad esporti, anche di fronte alla critiche ricevute nella scorsa stagione. Credi che questo ti abbia aiutato o danneggiato?
Da Iacona ho imparato che la spontaneità e la schiettezza pagano e anche caratterialmente sono sempre stato così. Io faccio parte di una generazione di inchiestisti di primissimo livello che ha dimostrato di sapere anche fare la conduzione: penso a Francesca Fagnani, Luca Rosini, Nello Trocchia e sicuramente me ne sfugge qualcun altro. Purtroppo credo che ad oggi non abbiano avuto tutte le occasioni che meritavano perché non c’è stato ricambio. Questa credo che sia una sconfitta per tutti, per il pubblico e per noi come categoria. Siamo parte di un sistema malato, in cui si inserisce la lotta politica e le ambizioni e le pressioni che essa esercita. Sono contento di denunciare un gioco truccato a cui comunque sono stato costretto a giocare: spero sempre che a forza di dirle queste cose l’ambiente possa diventare un giorno più corretto.
Cosa vorresti dire oggi a chi nei primi anni della tua carriera ti definiva “il bagnino” e cosa invece diresti al Federico di allora?
Per quanto intorno a me ci fosse scetticismo per come ero fatto, per il giornalismo a cui ambivo, alla fine non ho mai mediato e quindi non so neanche se a quel Federico direi qualcosa. Certo ci soffrivo e quindi gli confermerei che esiste un altro modo di fare le cose e funziona. Ci sono stati allora dei momenti di scoramento, però adesso quando quelle stesse persone che per anni hanno cercato di insegnarmi il mestiere si congratulano non riesco a provare risentimento. Poi non è detto che alla lunga avrò ragione io. Se anche un giorno mi dicessero che la mia carriera da conduttore è finita, tornerei molto volentieri a Report. Di certo vorrei andarmene da vincitore sapendo di aver fatto al meglio il mio lavoro e in questo mi sento sulla buona strada.