Sex Education 3, quando il tabù genera tribù: la recensione
Una stagione che ingrana nella seconda metà, ma poco importa: Sex Education come poche altre serie tv sa davvero cosa vuol dire inclusione
La parola “inclusione” è ormai diventata un must in televisione e nei salotti buoni (sia reali che social): tutti devono parlare di inclusione e, di conseguenza, mostrare di saperla applicare. E tutti ci riescono, sia chiaro: pochi, però, lo sanno fare con una leggerezza ed un’ironia come Sex Education, ora giunto alla stagione 3, su Netflix a partire da venerdì 17 settembre 2021.
Perché, parliamoci chiaro, per tante serie tv/programmi di intrattenimento/talent/talk l’idea di inclusione si è trasformata da occasione di confronto e reale dialogo sulle trasformazioni della nostra società ad opportunità di puro marketing e necessità per restare nelle grazie di quel pubblico giustamente in cerca di una rappresentazione più ampia possibile.
Sex Education 3 -che conferma il suo cast principale, a partire da Asa Butterfield, Gillian Anderson, Emma Mackey e Ncuti Gatwa-, invece, non solo conferma di godere di una libertà tale per cui può portare nelle proprie sceneggiature situazioni che diventano davvero funzionali alla trama, ma anche la sua capacità di rendere l’argomento tabù per eccellenza, il sesso, in un argomento che non divide ma unisce.
Gli studenti del Liceo di Moordale, sempre più al centro delle vicende di questa stagione (la nuova preside Hope –Jemima Kirke, già vista in Girls- è determinata a ripulire l’istituto dalla sua reputazione di “scuola a luci rosse”), fanno sempre più comunità in quello che è un racconto che ormai abbiamo capito non voler parlare agli adolescenti, o meglio non solo a loro.
Sex Education è una serie che si rivolge ad un pubblico più vasto di quanto si possa pensare: d’altra parte, il sesso è uno degli argomenti più universali che esistano. Ancora una volta, viene però declinato in modo tale da mostrarlo senza vergognarsene e soprattutto sotto i suoi molteplici aspetti, che vanno ben oltre quello fisico: la passione, l’amore, l’insicurezza, l’accettazione e, quindi, la sopra citata inclusione.
Questa terza stagione ci ricorda -soprattuto andando verso il finale di stagione: i primi episodi non hanno particolari guizzi da segnalare- perché Sex Education ci piace così tanto. Perché è una serie libera, che intende l’inclusione non come materia didattica da insegnare, ma come approccio alla vita da prendere anche con ironia e mai per trarne vantaggio.
Nel farlo, ci mostra una generazione di ragazzi e ragazze in cui davvero tutti possono rispecchiarsi, adulti compresi. Un linguaggio, quello del sesso, che da generatore di tabù diventa generatore di una tribù, senza mai salire su nessuna cattedra. Nella serie, anche chi ha il ruolo del mentore -vedi il personaggio di Jean, che ci ha regalato un lato inedito di Anderson- ha bisogno a sua volta di consigli, in un cerchio che gira divertito tra qualche emozione e tanti sorrisi.
L’inclusione, in fondo, è questa: sapere accettare per davvero ciò che è differente includendolo, appunto, sia nelle cose tristi che in quelle allegri. Una formula ricorrente anche in questa terza stagione, forse non innovativa rispetto al passato, ma anche per questo così adorabilmente rassicurante.