Libertà? Parla Massimo Fini
Dopo la bagarre scatenata dalla trasmissione RockPolitik, i nostri lettori si sono dialetticamente azzuffati nel commentare, sostenere o censurare i fatti presentati da Adriano Celentano, la partecipazione di Michele Santoro e i riferimenti ad Enzo Biagi e Daniele Luttazzi. Senza entrare ulteriormente nel merito della famigerata classifica stilata da Freedom House, ritengo corretto dal punto
Dopo la bagarre scatenata dalla trasmissione RockPolitik, i nostri lettori si sono dialetticamente azzuffati nel commentare, sostenere o censurare i fatti presentati da Adriano Celentano, la partecipazione di Michele Santoro e i riferimenti ad Enzo Biagi e Daniele Luttazzi. Senza entrare ulteriormente nel merito della famigerata classifica stilata da Freedom House, ritengo corretto dal punto di vista culturale e politico portare il caso del giornalista Massimo Fini che, come Marco Travaglio, Oliviero Beha e Vittorio Sgarbi, pur proponendo un certo tipo di informazione libera da ogni convenzione, però da destra, ha conosciuto allo stesso modo un vergognoso oblìo e la subdola censura televisiva pubblica e privata.
Da “il Gazzettino” del 30 agosto 2005, testo riportato da BananaBis.
Su “Libero” Cesare Lanza, recensendo “Massimo Fini è Cyrano, contro tutti i luoghi comuni“, che riassume la mia esperienza teatrale, si dice ammirato del fatto che io, per un anno, sia riuscito a cambiare mestiere e stile di vita, aspirazione che, a suo dire, è di molti, che però non riescono a realizzare. E conclude chiedendomi di raccontare “come si fa”. Sono grato a Lanza e lo accontento subito. Come si fa? È semplicissimo. Se in questo Paese, e in particolare nel giornalismo, uno ha la pretesa di conservare un certo gusto all’indipendenza, viene emarginato in modo felpato, sornione, ammiccante, persino sorridente e, per carità, democratico – quindi inattaccabile – e resta perciò isolato. Per cui cambiar mestiere e vita non è una scelta, e nemmeno un atto di coraggio, ma una necessità. Certo io ho molte colpe. Non ho partecipato al Sessantotto, non ho mai civettato con la violenza e col terrorismo nostrano, non ho nemmeno assassinato un commissario di polizia (per cui mi sono vietate le Tribune d’onore), non mi sono intruppato in partiti, lobbies, clan, non sono omosessuale, femminista e nemmeno donna, non faccio parte di alcuna “minoranza organizzata”, appartengo a quei “quattro gatti” della maggioranza, cioè a quegli individui che, se sommati, sarebbero la maggioranza ma siccome non fan lega fra loro non contano nulla. Inoltre ho sempre pagato le tasse e rispettato le leggi. Eppure, nonostante questi handicap, negli anni ’70, quando la politica non aveva ancora messo del tutto le mani sul giornalismo, ero considerato, come ricorda anche Lanza, una delle giovani penne più brillanti. Tommaso Giglio, mitico direttore dell'”Europeo”, disse: «Con le qualità di Fini ho visto arrivare qui solo Bocca e la Fallaci (naturalmente si riferiva alla straordinaria Oriana di allora, non a quella, imbarazzante, di oggi)». Forse avrà sbagliato. Però non c’è direttore, da quelli che mi hanno voluto bene, come Zucconi o Magnaschi o Montanelli o Feltri o Belpietro o Bacialli, a quelli che mi hanno solo sopportato, che non abbia espresso apprezzamento per il mio lavoro. Non pianto grane. Se una situazione non mi va me ne vado. Come feci con l'”Europeo” occupato dai socialisti di Martelli e la Rizzoli devastata da Tassan Din e col “Giorno” diretto da Damato. Il libro “I giganti di carta”, mi mette fra i settanta più importanti giornalisti italiani. Nel 2002 un mio libro, “Il vizio oscuro dell’Occidente”, è stato in testa alla saggistica degli autori italiani preceduto solo da “White stupid man” di Moore. Eppure non ho mercato. Nessun giornale nazionale mi vuole (e quindi sono particolarmente grato al “Gazzettino” che mi lascia la libertà che mi lascia, nonostante ci siano dei lettori che mi dan del “comunista” così come, altrove, mi dan del “fascista”). Con la Tv di Stato, come con Fininvest-Mediaset, non ho mai avuto rapporti, nemmeno uno di quei contratti di consulenza, in genere fasulli, su cui vive tutta la Roma intellettuale. L’unica volta che è capitato, non per mia iniziativa, il mio programma “Cyrano” è stato cancellato il giorno prima di andare in onda. Non per i contenuti che nessuno aveva ancora visto, ma perché qualcuno aveva deciso che io alla Tv di Stato non devo lavorare. Adesso si è scoperto che non ci posso nemmeno comparire; sono stato eliminato, all’ultimo momento, da un “faccia a faccia” con Vittorio Feltri sulla Fallaci “senatrice a vita” e sostituito con Paolo Liguori. Del resto, in tanti anni, non sono mai stato invitato né da Vespa né da Santoro. Potrebbe essere un vanto, però a furia di essere escluso di qua e di là, di su e di giù, la mia situazione comincia a farsi critica sotto ogni punto di vista, anche economico. Per questo, caro Lanza, mi sono dato al teatro. Ho sessant’anni, mi guardo indietro e cerco di capire dove è cominciato l’errore. Nel “Settimo sigillo” di Bergman il Cavaliere, tornato al suo castello dopo dieci anni di guerra in Terra Santa, vi trova solo la sposa, gli altri sono fuggiti per paura della peste. I due a malapena si riconoscono. Il Cavaliere: «Sono tornato. E sono un po’ stanco». Lei, temendo che tutto quel sacrificio non sia servito a nulla, nemmeno ad appagare i Sogni di lui, gli chiede con un tremito nella voce: «Dimmi, sei pentito di ciò che hai fatto?». «No. Sono solo un po’ stanco». Anch’io non sono pentito di aver tenuto fede ai miei sogni di ragazzo. Solo, dopo 40 anni di vita “contro”, sono un po’ stanco. Molto stanco.