48 ore – Un’analisi approfondita
E’ da un bel po’ di tempo che corteggio l’amico MarcusDaly per convincerlo a scrivere su queste paginette, vista la sua esperienza nel campo della lunga serialità televisiva. Non ne vuole sapere, ma ogni tanto mi lascia in usufrutto un post interessante. Questa è la volta di 48 Ore, di cui ha scritto un’analisi interessante
E’ da un bel po’ di tempo che corteggio l’amico MarcusDaly per convincerlo a scrivere su queste paginette, vista la sua esperienza nel campo della lunga serialità televisiva. Non ne vuole sapere, ma ogni tanto mi lascia in usufrutto un post interessante. Questa è la volta di 48 Ore, di cui ha scritto un’analisi interessante che spiega più che bene quali siano i gravi difetti di questa fiction in odore di soppressione.
Ho voluto concedergli la seconda visione (e pochissimi mi hanno imitato, lo scorso lunedì), prima di parlarne. Ma 48 ore è proprio indifendibile, e i motivi dell’insuccesso sono a mio avviso talmente palesi che mi meraviglia che questo progetto abbia avuto il benestare della rete che lo ha trasmesso.
Il fatto è che 48 ore non aggiunge nulla, anzi se possibile peggiora lo schema della serie poliziesca stile Taodue (i vari Distretti di polizia e R.I.S.), soprattutto dal punto di vista della sceneggiatura.
La regia è l’unica cosa, infatti, minimamente di pregio, con il tentativo di dare ritmo attraverso sequenze d’azione ben girate, fatte salve alcune transizioni di montaggio con il ricorso a fastidiosi effetti digitali che si potevano evitare.
Ma la lezione di 48 ore dovrebbe essere imparata soprattutto da quegli editor e quei responsabili di rete che dovrebbero capire una volta per tutte che in una serie televisiva, l’elemento fondamentale, la componente cui bisogna prestare la maggiore attenzione, lo strumento da calibrare alla perfezione è la sceneggiatura, è la struttura narrativa dell’intera serie, è il tratteggio e l’arco di trasformazione dei personaggi principali.
In Italia, invece, il processo narrativo è spesso il più trascurato, il più raffazzonato, quello realizzato con maggiore velocità, perché bisogna passare alle riprese e alla postproduzione il prima possibile, in quanto, quasi sempre, l’approvazione della rete per la messa in produzione di una serie arriva all’ultimo momento, e la contrazione dei tempi avviene sacrificando, appunto, la fase di elaborazione delle linee narrative.
Nel caso di 48 ore, ciò che difetta maggiormente è l’originalità dei personaggi: il set di caratteri principali hanno caratteristiche e dinamiche di interazione interpersonali del tutto simili a quelle di Distretto o Ris.
Si potrebbe fare una vera e propria tavola sinottica accostando Diego Montagna (Claudio Amendola) di 48 ore a Giulia Corsi (Claudia Pandolfi) di Distretto o Riccardo Venturi (Lorenzo Flaherty) di Ris: tutti e tre capi carismatici senza macchia, di grande onestà e professionalità, leader di gruppo, con un acerrimo nemico alle spalle (che nel caso di Distretto e di 48 ore proviene dalla criminalità organizzata: Luigi Maria Burruano e Tony Sperandeo sono ovviamente i mafiosi, attori sicuramente di grande professionalità ma ormai ingabbiati nel solito ruolo).
A loro volta, sotto la guida di questi capi illuminati, ci sono: il poliziotto anziano, rude e un pò rozzo, dallo spiccato accento dialettale, che è l’anima comedy della serie: in 48 ore è Vincenzo Vullo (Mimmo Mignemi), in Distretto di polizia è Giuseppe Ingargiola (Gianni Ferreri), e in Ris è, per certi versi, Bruno Corsini (Giampiero Judica); c’è il giovane, un pò alle prime armi e dunque inesperto, la mascotte del gruppo, di solito asso della tecnologia: Andrea Billé (Lorenzo Balducci) in 48 ore, Fabio Martinelli (Filippo Nigro) in Ris, Luca Benvenuto (Simone Corrente) in Distretto di polizia, e nell’ultimo Anna Gori (Giulia Bevilacqua); c’è l’outsider, il poliziotto che se ne frega delle regole, che va dritto al sodo, a volte scontrandosi col gruppo, ma che spesso, proprio in virtù dei suoi metodi spicci, risolve le situazioni più ingarbugliate: Renato Tenco (Adriano Giannini) in 48 ore, Mauro Belli (Ricky Menphis) in Distretto, Davide Testi (Stefano Pesce) in Ris; c’è il braccio destro del capo, quello che ha il rapporto di maggiore intimità con lui, quello che lo sostiene nei momenti di sconforto o lo aiuta in quelli di maggiore difficoltà, quello che media nel rapporto con gli altri del team: Marta De Maria (Claudia Gerini) in 48 ore, Roberto Ardenzi (Giorgio Tirabassi) in Distretto, Vincenzo De Biase (Ugo Dighero) in Ris; e ovviamente ci sono le solite dinamiche sentimentali, i soliti problemi familiari per via del troppo lavoro e del pericolo, gli scontati triangoli amorosi tra persone costrette a vivere fianco a fianco e ad affrontare le medesime difficoltà. Personaggi e dinamiche, insomma, fatte con lo stampino. Serie che si assomigliano in modo imbarazzante. Il raschiamento del fondo del barile, il pericolo di saturazione (i paralleli fatti valgono anche nel caso dell’analoga fiction costiera sulla Rai: Gente di mare) sono dietro l’angolo.
In più, 48 ore sconta un altro elemento di mancato interesse: l’assenza del morto. Mentre in Distretto e in Ris si parte quasi sempre da un omicidio, e dalla detection necessaria ad individuare l’assassino, in 48 ore non si parla di delitti, ma dell’esigenza di assicurare alla giustizia evasi o latitanti. Il morto è in effetti un forte catalizzatore drammaturgico, che tiene alto l’interesse e la partecipazione dello spettatore. Il latitante o l’evaso lo sono di meno.
Per non parlare delle linea orizzontale di serie, col solito mafioso latitante ed imprendibile, cattivissimo, presa pari pari dalle prime due stagioni di Distretto.
48 ore è insomma una serie narrativamente vecchia, con i soliti personaggi manichei, buoni buoni o cattivi cattivi, le solite dinamiche di gruppo, i soliti casi di puntata senza mordente.
Un buonismo di fondo francamente irritante, come si è visto anche nell’ultimo episodio andato in onda, sulla ricerca di una terrorista prima che fosse rapito un generale americano: i nostri eroi riescono a sventare il piano senza che venga sparato un solo colpo di pistola; la terrorista si trova faccia a faccia col poliziotto, entrambi armati, e lui la convince a deporre la pistola con un pistolotto di una retorica imbarazzante, su come sia inutile combattere per gli ideali se questo significa sacrificare le persone, sul fatto che lui ha una moglie e un figlio. Prima di salire sulla volante che la porterà al carcere a vita, la terrorista guarda il poliziotto e gli confida che anche lei ha una figlia (che si chiama Soledad, nel più puro stile veterocomunista latinoamericano) e il poliziotto le risponde che lo sa, che ci ha parlato, e che ha un bellissimo sorriso. Al che la terrorista si commuove, sorride a sua volta, accetta di buon grado la pena, perché ha sbagliato. Ma per favore! Basta! Basta con queste fesserie da scuola elementare di drammaturgia.
Mi dispiace dirlo, ma l’insuccesso di 48 ore spero che serva di lezione, e che possa contribuire a far si che le cose, prima o poi, cambino. Che si facciano serie un pò più coraggiose ed intelligenti.
MarcusDaly