TV E UTOPIA
Enzo Siciliano è morto, lo sappiamo. Era uno scrittore-critico, aveva diretto film, fatto l’organizzatore culturale e animato numerose iniziative e la rivista letteraria “Nuovi Argomenti”. Faceva parte di un gruppo di intelligenze che hanno tenuto banco non solo a Roma, a lungo, in cui c’erano Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Dacia Maraini, ai quali si
Enzo Siciliano è morto, lo sappiamo. Era uno scrittore-critico, aveva diretto film, fatto l’organizzatore culturale e animato numerose iniziative e la rivista letteraria “Nuovi Argomenti”. Faceva parte di un gruppo di intelligenze che hanno tenuto banco non solo a Roma, a lungo, in cui c’erano Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Dacia Maraini, ai quali si possono aggiungere Bernardo Bertolucci , Dario Bellezza e pochi altri. Le ho conosciute, queste persone, le ho frequentate, ho imparato molto da loro, ascoltando le conversazioni quando capitava, leggendo e vedendo le loro opere, cercando di “rubare” discretamente quel che avevano da dire, quel che riuscivano a creare.
Siciliano è stato fra il 1996 e il 1998 presidente della Rai. Ma non era la prima volta che metteva piede nella nostra maggiore industria cultuale. Anzi. Il suo primo approccio con la Rai avvenne sul finire degli anni Cinquanta quando partecipò a un concorso programmisti che vinse insieme a Francesca Sanvitale (scrittrice e programmista televisiva), Liliana Cavani e altri promettenti autori. Siciliano comunque non entrò, e accettò in seguito di fare delle collaborazioni, come pure la Cavani che scelse di fare la libera regista.
Come presidente della Rai, Siciliano fu protagonista di uno di quegli episodi che vengono regolarmente dimenticati e che invece vale la pena di rievocare, per allontanarsi dal clima appiccicoso della testimonianze e delle rimembranze funebri. Insieme ad altri membri del consiglio di amministrazione dell’azienda (in cui sedeva anche la Cavani) decise qualcosa fu irripetibile. Qualcosa di sorprendente, di nuovo, di inaudito. Ovvero, il 7 dicembre di dieci anni fa il Tg1 – il giornale degli italiani, quello della tradizione e del record degli ascolti- venne sospeso per trasmettere al suo posto l’opera “Macbeth” di Giuseppe Verdi che inaugurava la stagione del Teatro La Scala, Milano, la stagione che è da sempre un fatto non solo cittadino. Lo stupore fu grande. Mai nessuno aveva osato tanto. Mai nessuno aveva imposto così risolutamente le ragioni dell’arte e della cultura su quelle della informazione.
Fu un flop. Almeno nel senso degli ascolti, secondo quanto siamo stati abituati a considerare. Se non sbaglio, furono circa due milioni gli spettatori che si misero davanti al piccolo schermo per partecipare al rito lirico nazionale reso visivo. Una cifra nettamente inferiore a quella solita, due-tre volte tanto e anche più. Un flop, ripeto, secondo i numeri. Ma le critiche furono numerose e non risparmiarono la decisione presa che venne considerata velleitaria e inutile. Ci sono anche proteste. Verdi e la Scala contro il Tg e la potenza della notizie, della attualità? Quasi uno scandalo.
A distanza di anni, quella sostituzione appare a me, e spero ad altri, come un gesto utopistico, come un modo per provocare una situazione cristallizzata e piegata ad abitudini automatiche, meccaniche. Una sfida. Più che una scommessa. Perdere forse può valere la pena, a volte. E avere così, in un modo speciale e volutamente cieco (per quanto riguarda gli ascolti), la prova che la tv ha delle ferree regole determinate dalla sua storia di mezzo secolo e di distorsioni entrate nel dna della stessa tv e di noi spettatori stessi. Poco o nulla si può fare per scalfire il monumento che la tv (la Rai in questo cas0) ha costruito nel tempo a sè medesima, come accade del resto in altre parti del mondo, tutto intero.
Le utopie in tv possono avere degli effetti curiosi. Possono addirittura rafforzare le tendenze ripetitive e quindi consolidate. Possono, insomma, diventare persino inutili se non nocive. Per il “Macbeth” non nocive, poichè una platea ridotta rispetto al solito ma vasta riuscì a sbirciare dentro le munite mure della Scala destinate ad aprirsi ai fortunati, ai ricchi, ai presenzialisti, agli appassionati abbienti, al pugno di loggionisti ultras. Ma le utopie diventano decisamente nocive quando vengono lasciate sole, abbandonate a un gesto solitario, ad un atto, ad una sfida che assume il valore di un puntiglio assoluto, senza che vengano adeguatamente esaminate le conseguenze.
Non si vedrà più una nuova prima alla Scala, nè il Tg 1 sarà privato del suo trono. Niente da fare. La tv è così, bellezza; e ti devi rassegnare e non tentare più.
Quella esperienza voluta da Siciliano e dal suo cda , storicamente, resta come un episodio clamoroso senza presente e senza futuro, ma anche senza passato (nessuno aveva azzardato fino al 7 dicembre di dieci anni fa questa utopia) nel senso che si scivola via da essa, vi si passa sopra e , così facendo, ci si inchina all’andazzo. Cioè: la rinuncia alle utopie che vengono messe al bando- possono fare molto male- significa però che ogni altra ipotesi di idee e di progetti nelle trasmissioni e nel palinsesto non avrà più posto. E’ dura riconoscerlo. Ma non sono convinto fino in fondo. Il “Macbeth” racconta di assassini che invano tentano di lavarsi le mani dal sangue. Senza efferratezze e senza sangue, quanti sono coloro- dirigenti e autori- che non avvertono nemmeno di avere la mani sporche di mediocrità o di stupidità. Le prime serate sono lì, dopo i tg, e non solo il vecchio Tg1, a dimostrarlo.
ITALO MOSCATI