Alias, il gran finale
Finisce Alias, e TvBlog è lieto di ospitare la consueta recensione di Mario A. Rumor. Abituato a dominare gli istinti primordiali del telespettatore, invariabilmente a caccia di emozioni estinte e sentimenti che oggigiorno passano nella strettoia preferenziale dei reality, Alias dice bye bye e se ne va nel paradiso dei ricordi dopo cinque stagioni. Con
Finisce Alias, e TvBlog è lieto di ospitare la consueta recensione di Mario A. Rumor.
Abituato a dominare gli istinti primordiali del telespettatore, invariabilmente a caccia di emozioni estinte e sentimenti che oggigiorno passano nella strettoia preferenziale dei reality, Alias dice bye bye e se ne va nel paradiso dei ricordi dopo cinque stagioni. Con la promessa di penetrare nel sancta sanctorum di Milo Rambaldi, uno più pericoloso del Codice da Vinci, e finalmente chiarire i misteri che si sono mescolati alle acrobazie di Sydney Bristow e alle sue missioni sotto copertura in giro per il mondo; misteri capaci di governare l’interesse e la curiosità dei fan per lungo tempo e con le dovute maniere. Sydney, esaltante super-eroina senza sigillo (quello è di esclusivo copyright dei cattivoni), ha detto basta ai troppi “alias” indossati in questa vita telefilmica scegliendo un congedo meno ovvio, non prima di aver messo la parola fine ai fantasmi del passato (suo e dell’umanità intera, verrebbe da dire) ed estirpato il cancro corrosivo di potere occulto che serpeggia nel mondo. Fino a inevitabile ricostituzione di bad guy sempre pronti a malefatte e doppi giochi. Ma già questo non è più affar suo. Infatti gli ultimi minuti di Alias sono family devoted con ringraziamento dello staff a quanti hanno fin qui sostenuto lo show. Preparatevi: ci saranno vittime di rango, il cast si assottiglierà da un versante e dall’altro, i colpi di scena misurati e cronometrati con diligente maestria. Tutto fila per il verso giusto anche senza il sostegno di papà J.J. Abrams.
E il dubbio per un finale forse più costrittivo (per il nostro sistema nervoso, ormai dipendente alle genialate di JJ) salta pure fuori a un certo momento. Ma va bene così. Soprattutto da quando l’amatissimo Lost si è insinuato nel cuore di pubblico e critica più di quanto non sia riuscito a fare Alias (qualcuno un giorno ci spiegherà il perché). Che, col senno di poi, è sembrato in tutto e per tutto una prova generale, un’ipotesi di TV d’autore e commerciale, prima di affondare i piedi nella sabbia dorata della serie cult di questi mesi. Alias è stato il punto di partenza di estasi complottistica e pandemonio di segreti e bugie estrapolati dal dna di Abrams, o parte di esso. Che solo per volere di Tom Cruise si è riciclato su grande schermo con altro “alias”: quello dell’agente Ethan Hunt di Mission: Impossibile III.
Alla fine le domande da soddisfare sono altre, una volta messo a riposo il rinascimentale Rambaldi. Come le certezze autentiche. E cioè che Alias è un perfetto meccanismo di intrattenimento dove l’indagine sui personaggi non è coperta dal segreto. Se non hanno voglia di parlare o mostrare il fianco emotivo, scalciano, fanno a botte e ne prendono una sacca e una sporta. Non ha mai avuto voglia di prendersi dannatamente sul serio questo telefilm, così si spiegano le esagerazioni che il genere di solito concede a piene mani. Nulla è stato tralasciato, come la collisione perfetta tra dramma e ironia (che spesso il doppiaggio italiano non rende alla perfezione). S’è visto di che pasta è fatto il Bene. E il Male. Perfino qualcosa di peggio: Arvin Sloane, al quale il destino su piccolo schermo riserva esattamente ciò che da sempre la sua ossessione per Rambaldi lo ha spinto a fare macchiandosi del sangue altrui. Salvo pentirsene in eterno.