La brutta tv secondo Antonio Ricci
Il Corriere della Sera ha organizzato a Milano un incontro con Antonio Ricci, che festeggia 30 anni di attività televisiva. Vale la pena di riportare le dichiarazioni di Ricci – riprese anche da TgCom – e di fare qualche considerazione sulle stesse.Quello che sta accadendo alla televisione italiana è che non si rischia più. I
Il Corriere della Sera ha organizzato a Milano un incontro con Antonio Ricci, che festeggia 30 anni di attività televisiva. Vale la pena di riportare le dichiarazioni di Ricci – riprese anche da TgCom – e di fare qualche considerazione sulle stesse.
Quello che sta accadendo alla televisione italiana è che non si rischia più. I programmi di successo sono pochi e sempre quelli perché ormai si tende solo ad “italianizzare” format che arrivano già confezionati dall’estero. Questo perché non c’è convenienza ad investire in cose nuove o proprie, quindi si rimaneggia quelle che ci sono.
Analisi che mi sento di condividere in pieno, e di quotare integralmente. Analisi che però, ahimé, si adatta perfettamente anche ai format storici dello stesso Ricci, che sono sempre uguali a se stessi e non innovano. Del resto, l’autore precisa proprio su questo tema:
Ciò che impedisce l’innovazione è quel meccanismo nato originariamente per rilevare la pubblicità e che invece oggi incide sul peso da dare a ciascun programma: l’Auditel. E’ questo che costringe ad andare su cose note. Inoltre c’è la tendenza che, in assenza di altri sforzi, si tende ad attirare l’attenzione dei telespettatori verso cose primordiali, come le risse, i pianti. Si va sempre di più, quindi, verso una televisione immobilizzata.
L’attacco all’Auditel come metro di ogni giudizio televisivo è condivisibilissimo, sia chiaro. Il problema è che periodicamente c’è chi parla male dell’Auditel, ma poi non si fa niente di concreto per scardinare il meccanismo (del resto, i conduttori di Striscia, non fanno mistero del loro successo, proprio dall’Auditel decretato). Per esempio: che fine ha fatto il Qualitel? Morto e sepolto.
Del resto, Ricci ammette:
Tutte le cose che ho fatto hanno avuto esito seriale.
Ecco come Antonio Ricci ricorda il suo arrivo a Milano e i suoi esordi:
Sono arrivato in questa città nel ’71-’72, quando degli amici cabarettisti di Genova mi portarono al Derby. Feci un provino e venni preso. Il passaggio in tv avvenne grazie a un altro comico, Beppe Grillo. Mi trovai così a fare Fantastico, il varietà del sabato sera. All’epoca non c’erano giovani autori, io avevo solo 28 anni, non è stato tanto semplice ma ho avuto l’opportunità di imparare tante cose, compreso il montaggio. Già nella prima puntata facemmo arrabbiare il presidente della Rai, Paolo Grassi. Allora mandarono in onda il pezzo recitato da Grillo senza audio. Avvertimmo i giornalisti della censura e ne nacque un caso.
[Poi] Lì [in Fininvest, ndr] si è alzato completamente il tiro. Si è cercato da subito il bersaglio grosso, [Drive In] era la trasmissione che faceva il verso agli anni Ottanta con un’immediatezza nel linguaggio che colpì tutti. Dalla gente fu accolto subito, il favore dell’intellighenzia, come al solito, arrivò dopo.
E sulla nascita di Striscia la Notizia, fortunatissima:
Avevo visto Bruno Vespa dare la notizia dell’arresto del responsabile della strage di piazza Fontana, Pietro Valpreda. Siccome quella versione non mi convinceva, ho pensato allora che, finito un tg, avrebbe potuto esserci una trasmissione che analizzasse i fatti ufficiali con un occhio diverso. Striscia la notizia, che ormai va in onda da oltre vent’anni, è stata una scommessa sotto tantissimi punti di vista. Basti pensare che all’inizio durava solo cinque minuti.
Chiude con una battuta sulla satira, Ricci:
E se la satira non attacca il re, chi dovrebbe attaccare?
Sono tutti discorsi condivisibilissimi. Legittimo chiedersi, però, cosa diventino nel passaggio da una teoria cristallina, limpida e come sempre estremamente lucida, razionale e azzeccata, all’applicazione pratica e televisiva.