Di Vittorio, nè melò nè western…
Ieri sera ho visto la seconda puntata di “Pane e libertà” di Alberto Negrin, il giorno prima avevo visto la prima. Conosco i buoni risultati di ascolti della prima; buoni, non più di tanto; non conosco quelli della secondo; mi auguro siano più alti.Perchè ne scrivo a tambur battente, per così dire? Per fare un
Ieri sera ho visto la seconda puntata di “Pane e libertà” di Alberto Negrin, il giorno prima avevo visto la prima. Conosco i buoni risultati di ascolti della prima; buoni, non più di tanto; non conosco quelli della secondo; mi auguro siano più alti.
Perchè ne scrivo a tambur battente, per così dire? Per fare un outing, ovvero fare una dichiarazione d’amore per Pierfrancesco Favino. La fiction, perchè di fiction si tratta (e noi la trattiamo con comprensione), vive della sua faccia, del suo garbato tentativo di parlare con delicata cadenza pugliese come Giuseppe Di Vittorio, il sindacalista e uomo politico al centro della fiction; del suo evidente imbarazzo risolto non solo con mestiere di mettere d’accordo tutto quanto gli hanno messo sulle spalle. Il peso quasi sovrumano.
Solo un attore così bravo poteva riscattare la proposta modesta di “Pane e libertà”.Un attore che mi ha fatto pensare all’Amedeo Nazzari che non c’è più, l’epico protagonista di tanti film, da “Luciano Serra pilota” (1938) a “Catene “(1949), “Tormento” (1950) e a vecchi sceneggiati tv.
Favino ha un volto antico e moderno, può fare molto, forse può fare tutto, essendo uno dei pochi nostri interpreti capaci di duttilità e puntiglio nel prepararsi. Bello a suo modo, ma soprattutto un artista, un artista che sa fare ” anche” il professionista.
Detto questo, potrei concludere. Invece vado avanti per la stima che ho per Negrin e i suoi sceneggiatori. Vado avanti perchè, nelle carte che circolano prima della messa in onda, vengono sottoposte al pubblico e agli addetti le pezze d’appoggio, chiaramente per prevenire le critiche piuttosto che precisare le intenzioni. Ecco, qui esprimo un desiderio: via le pezze d’appoggio.
Che significa ripararsi a mezza strada fra il richiamo al melodramma e al western? Si capisce bene. Si vuol dire che le scene di vita e d’amore sono sempre tirate al sentimentalismo estremo. Nello stesso tempo si vuol dire che, in questo caso con una storia del sud italiano, le bestie e i paesaggi della piana pugliese possono essere tirati all’avventurismo estremo . Avventurismo come esasperazione di avventura che è però parola troppo nobile per essere usata in certa tv dove di avventura, di piacere dell’avventura, non si può parlare mai o quasi mai.
Vorrei difendere il melodramma che è un genere importante, da salvare come un bene culturale nazionale. Appendervisi e farne scudo è puerile. O lo si fa bene o non lo si citi nemmeno. Idem per il western. E’ un gran genere, anche per la revisione che ne fece Sergio Leone, e per la tradizione americana in cui troviamo registi geniali come John Ford.
Per favore, non citazioni, facciamo, fate cose non contaminate così alle buona. Il ricorso di generi, mescolati o frullati insieme, rischia di inquinare una biografia, i suoi obiettivi di tornare a personaggi e pagine di storia. E’ un alibi. E’ una mistificazione.
Domanda finale: è possibile che la fiction risulti spesso (vedi il recente “Puccini”) un timballo di cinema e tv, piuttosto che un frutto sincero e popolare? Ho ricordato Nazzari. Faceva i film “Catene” e “Tormento” che avevano un successo mostruoso e poi il regista, Raffaele Matarazzo, venne riscoperto. Io credo che queste fiction non verranno mai riscoperte perchè hanno la morte dentro. In contrasto col volto vivo di Favino.
Italo Moscati