I telefilm degli anni 2000 e le soap opera: il legame che (non) ti aspetti
Fine anno, il tempo di bilanci è in agguato. Lo è ancora di più se la fine del 2010 segna la fine di un decennio e l’inizio di un altro. Tutti, allora, a decidere cosa i primi anni del Duemila ci hanno lasciato, cosa ricorderemo e cosa no. Lo si fa con gli eventi di
Fine anno, il tempo di bilanci è in agguato. Lo è ancora di più se la fine del 2010 segna la fine di un decennio e l’inizio di un altro. Tutti, allora, a decidere cosa i primi anni del Duemila ci hanno lasciato, cosa ricorderemo e cosa no. Lo si fa con gli eventi di una certa importanza, con i personaggi, e con i prodotti culturali. E dove scrivi prodotti culturali, leggi anche telefilm.
Le serie tv sono entrate prepotentemente nella sfera dei prodotti culturali sfornati dalla televisione più pregiati di questi ultimi anni. Pensate a qualche serie televisiva che ha preso uno spazio nei vostri ricordi: molte, saranno nate proprio in questi anni, quando i network generalisti americani (ma non solo, troviamo bei telefilm in giro per il mondo) hanno speso tanto per far fronte ad una “guerra” di storie e personaggi contro i canali via cavo che, silenziosamente, ci hanno regalato tra gli show più innovativi di questa decade.
Ma se vi dicessi (o vi dicessero) che gli show di primetime che amate ed avete amato di più hanno una matrice da daytime, riconducibile al prodotto più casalingo che la televisione abbia regalato ai suoi telespettatori cambierebbero le cose? A sostenere questa tesi, nell’ultimo numero di “Link Mono” dal titolo “Ripartire da zero” (dedicato a questi dieci anni ed alle loro contraddizioni ed innovazioni mediatiche), è Nico Morabito, sceneggiatore e blogger che di telefilm ne sa qualcosa.
Se il suo nome non vi dice nulla, forse Tutto FaMedia sì: si sente la mancanza dei suoi bignamini di “Lost” tanto quanto della serie stessa, e questo non solo perchè è riuscito a dissacrare la serie più intoccabile del decennio (tentativo portato avanti anche nell’ultimo Telefilm Festival, col dibattito “Lost: capolavoro assoluto o boiata pazzesca?”), ma anche perchè, tra le righe, ha dimostrato una tesi di cui si può leggere approfonditamente nel suo pezzo “Cara Bree, tra noi è tutto finito”, che potete trovare nel blog della rivista.
Morabito parte da un presupposto: le soap opera, per quanto criticate possano essere, hanno una sceneggiatura la cui impalcatura è ricca di elementi utili per attirare il telespettatore nella propria rete. Segreti che vengono scoperti, personaggi spariti nel nulla che ricompaiono, morti che non ti aspettavi: difficile attribuire questi elementi solo alla categoria telenovela o solo alla categoria telefilm. Ed infatti, secondo l’autore del pezzo, le soap hanno contaminato le serie tv:
“Le parti sane delle soap sono state trapiantate nei corpi estranei degli show di prima serata. Non solo non si è avuta alcuna crisi di rigetto, ma l’oggetto telefilmico ha saputo evolversi in complessità e qualità fino all’esplosione delle cosiddette serie serializzate, vero marchio di fabbrica dell’industria americana degli anni Zero. L’elemento soap, da eccezione, è diventato norma, ha investito i grandi racconti di massa e di nicchia, e ne ha favorito la prepotente affermazione nell’immaginario collettivo del decennio. Musa ispiratrice o semplice make up, la soap ha agito da dispositivo di sovvertimento, entrando trionfalmente dalla porta principale della serialità. Risultato? Commistioni e ibridazioni hardcore: la ‘sit-soap’ Desperate Housewives, il ‘procedurale-relazionale’ Brothers and Sisters, lo ‘psico-melodramma medical’ Grey’s Anatomy, persino la ‘soap opera indie’ Mad Men.”
Si svela, così, un gioco che in realtà i più accorti avranno sicuramente già scoperto: non è un caso proprio “Grey’s anatomy” da alcuni viene ormai definito “luxury soap”, ovvero “soap di lusso”, perchè in onda in prima serata, con budget importanti e impensabili per una serie da daytime,mentre “Ugly Betty” è tratta proprio da una telenovela, con tutti gli elementi del caso: le storie d’amore tormentate tra i protagonisti, la scomparsa di alcuni personaggi, gli intrighi sul lavoro.
“Ma è normale che sia così”, potrebbe dire qualcuno. Eppure, dalla contaminazione non sono immuni nemmeno i crime:
“E così, in Dexter (stagione 4 -attenzione spoiler-, ndr), mentre il plot principale scorre tra fiumi di sangue, il tenente Maria Laguerta e il detective Angel Batista, entrambi di origine cubana, sono protagonisti della più classica delle linee romantiche: un amore contrastato, un cattivo, l’happy end, insomma gli elementi tipici di una soap, anzi di una telenovela sudamericana, con in più tutta la consapevolezza ironica del caso.”
Non sono solo le storie a “risentirne”, ma anche i personaggi. Quanto si è parlato di anti-eroi in questi anni, partendo dal Dr. House, primo di una serie di protagonisti di serie in cui non è detto che il bene sia lo scopo finale del racconto. In dieci anni, abbiamo assistito a personaggi le cui vite sono cambiate per non cambiare, hanno avuto colpi di scena che, però, li hanno riportati sempre o quasi al punto di partenza:
” Lynette Scavo continuerà a rimanere incinta di un numero imprecisato di bambini e a scindersi tra la carriera e la famiglia. Nora Walker dovrà fare i conti con i segreti ereditati dal marito William, morto nel pilot ma eterno ‘protagonista ombra’. Jack Shepard non riuscirà mai a liberarsi dalle catene del proprio ‘quasi’ nomen-omen”.
Proprio Jack è al centro di uno dei triangoli amorosi più noti ai fan di serie tv di questi anni: parliamo, ovviamente, della storia con Kate la quale, a sua volta, viveva un tormentato rapporto con Sawyer (che nel frattempo, si è lasciato andare ad un lungo fidanzamento negli anni ’70 con…l’altra, Juliet), decidendo solo alla fine -ma davvero?- con chi volesse stare. Un menage a trois che ha anche ispirato un azzardato paragone alla nostra tv di tronisti ed rvm.
Uno schema, quello spiegato da Morabito, che ben si adatta a tutte le serie di queste decennio, schema che, però sembra iniziare a perdere i primi colpi:
” L’eccesso è diventato metodo, tutto si è mescolato con tutto. La soap e il reality si sono cannibalizzati a vicenda. Ci si è fidati e accontentati di schemi vincenti, usurati fino allo sfinimento: la ‘ripetizione’, da esercizio di stile, si è trasformata in vera sciatteria creativa. Fino al punto di non ritorno: la messa in discussione del concetto stesso di ‘genere seriale’. Molti serial, spinti da correnti e cortocircuiti, si sono trovati in transito da un genere all’altro, con il risultato di una profonda crisi di identità e di una opacizzazione delle vecchie etichette: medical, family, teen, legal, crime, fantasy. Lo spettatore, cresciuto a pane e complessità, coinvolto per anni nel processo creativo dentro e fuori il testo, all’improvviso ha deciso che non ne poteva più. Di dolore e di misteri. In un momento storico di confusione e incertezza, il bisogno di rassicurazione sembra prendere il sopravvento: ‘Ridateci il whodunit, un po’ di romance ma non troppo, le false piste, le chiusure senza cliff. Grazie’ “.
Storie già viste, personaggi prevedibili, colpi di scena inventati solo per tirare su gli ascolti: è davvero questo il futuro della serialità? Lo sarà, forse per le reti generaliste, sempre più affannate di fronte alla concorrenza delle reti via cavo, le cui serie possono osare e proporre nuovi schemi. E noi europei stiamo a guardare? No, anzi: forse per cercare qualcosa di nuovo bisogna andare sul vecchio continente, e sbirciare dove spesso non ci capita di fare, per trovare qualcosa che ci appassioni ancora tanto come fecero le prime stagioni degli show di questi anni che ricorderemo (Inghilterra in cima, ma anche l’Italia, con “Romanzo Criminale” ha dimostrato di non essere da meno).