Bravo, Enrico Mentana. Non solo perché riesce a ottenere in esclusiva l’intervista con Valter Lavitola (perché il Lavitola abbia scelto di sottoporsi a questo lunghissimo interrogatorio televisivo, resterà probabilmente un mistero: semplice desiderio di raccontare la propria versione rimanendo al sicuro, dove non c’è l’estradizione? Difficile. Desiderio di mostrarsi fedele a qualche potente con il rigido mantenimento della propria versione? Possibile. Vanità, voglia di farsi vedere più furbo dei furbi? Anche. Qualche messaggio fra le righe da mandare a chi è in Italia? Altrettanto possibile). Sì, ovvio, è un fatto eccezionale, l’intervista via satellite di un latitante. Ma il successo di Bersaglio Mobile (ecco il resoconto della prima puntata, Il Caso Lavitola risiede nel fatto che Mentana porta a casa dei telespettatori di La7 un giornalismo a cui ci eravamo disabituati.
Complici i quattro colleghi ospiti (su tutti, personalmente trovo ottimo e in grande spolvero Carlo Bonini, che con la sua ricostruzione dei fatti inchioda il Lavitola meglio di qualunque altra domanda incalzante. E’ lui a fare la domanda migliore a Lavitola – Che mestiere fa? – e a ripetergliela dopo aver ricostruito l’improbabile scenario di un imprenditore ex massone filantropo e un po’ immanicato), Enrico Mentana ha ricordato a tutti cosa voglia dire approfondire e, soprattutto, fare delle domande.
Poco importa che il Lavitola risponda come crede: i cinque giornalisti in studio fanno domande. Vere. Non concordate. E siccome sono domande vere, quando l’intervistato si attorciglia su posizioni inverosimili, Bonini, Mentana e colleghi possono permettersi di chiedere di non prenderci per scemi.
Sono domande non assoggettate alla logica dello share o al dibattito urlato cui siamo troppo abituati (e infatti Mentana richiama Marco Lillo, che ad un certo punto incalza un po’ troppo Lavitola: i due si parlano addosso e non si capisce nulla da casa. E non è quello che Mentana vuole). Domande le cui risposte o non risposte hanno un significato ben preciso, proprio perché ci sono quelle domande che vengono poste. Domande che si riferiscono a fatti. Poi, è chiaro: ognuno che abbia seguito la storia avrebbe avuto le sue, di domande.
Ma quel che è stato fatto questa sera è un’operazione estremamente importante perché con Bersaglio mobile, Enrico Mentana ha riconsegnato ai telespettatori il genere intervista, una parola che la televisione italiana contemporanea ha modificato nel suo senso più profondo, trasformandola in qualcos’altro, mistificandola, falsificandola.
Fino a questa sera – e da tempo ormai immemore – l’intervista era diventata un genere che ormai, dall’intrattenimeno all’infotainment all’approfondimento, il telespettatore conosce quasi esclusivamente nella sua versione azzerbinata, allineata e affatto interessante (dai vip che parlano di loro stessi difendendosi, autoesaltandosi aprioristicamente, autopromuovendosi, con l’intervistatore che annuisce contrito o compiacente o complice, fino ai politici abituatissimi a non rispondere mai alle domande giuste). L’intervista, non si sa bene quando, è diventata celebrazione. E’ diventata sinonimo di verità. E’ diventata monologo mascherato da dialogo. In tutti i programmi, non solo in quelli politici. E quando non è monologo, diventa dibattito-con-contraddittorio con le parti arroccate sulle proprie posizioni senza che si entri (quasi) mai nel merito delle questioni.
Mentana e i suoi colleghi hanno rivalutato, con un’operazione interessantissima e sicuramente da replicare, il senso stesso dell’intervista televisiva. Le hanno restituito la dignità che avrebbe, facendo quello per cui i giornalisti sono pagati. Leggere le carte, approfondire, mettere insieme i pezzi e, quando se ne ha l’opportunità, fare le domande.
Ecco perché, sentitamente, complimenti per la trasmissione. Per aver ricordato che in un’intervista domande e risposte sono egualmente importanti. Anzi, forse contano più le prime.