The Voice, lo spettacolo dell’umanità. Giudici carini, vocalità centrale. Troiano buono o alla buona?
Debutto promosso, anche se più lento del previsto. Prevale il cuore.
Il successo di The Voice si gioca tutto su un interrogativo. Dopo l’avanzare della tv un po’ stronzetta e ruffiana, che vede i giudici di X Factor scannarsi (usando giovani emergenti come accessori usa e getta), gli Amici un po’ cocchi di Maria un po’ dei professori e l’apprendista cuoco più immorale diventare MasterChef, avevamo bisogno di una morale nei talent show?
The Voice ce l’ha. Ce l’ha nel format da libro Cuore, che mette al primo posto l’anima (purché sorretta dal talento) a dispetto dell’immagine. Ce l’ha nella sensibilità dei giudici, che non fanno a gara di outfit e slogan televisivi. Anzi piuttosto, a volte, sconfinano nella banalità e nell’eccessiva bontà. Ma non sono buonisti. Sono umani, attenti, disponibili, schietti se c’è da dire di no ma senza accanimento.
Raffaella Carrà è un monumento della televisione italiana che, però, sa divertirsi e scegliere nello stesso momento. Piero Pelù, con la sua aria irresistibilmente fumata, ha con Morgan in comune tante cose, tranne una: lui di rock ha venduto dischi, più che frasi fatte, quindi gode di ampia credibilità. La loro alchimia è perfetta: il diavolo e l’acqua santa.
Apparentemente più sottotono Riccardo Cocciante e Noemi che, pur con i loro tempi più dilatati, si fanno apprezzare un po’ alla volta. Il primo è diventato un mito quando ha rifiutato una concorrente che, pure, voleva allisciarlo con Quando finisce un amore (che, però, non ha saputo interpretare), per non parlare del fatto che la Giulietta del suo musical non l’ha neanche riconosciuta (niente raccomandazioni, dunque). La Rossa, invece, alterna umiltà non finta e consapevolezza della sua empatia generazionale.
Insomma, questi quattro giudici sono tutti validi umanamente e artisticamente, ma non hanno l’astuzia televisiva di quelli di X Factor o la regia defilippica. Sono “normalmente” allo stato brado, naif e per questo imprevedibili.
Così The Voice scorre a tratti un po’ lento, ma con un valore di fondo: la centralità e democrazia dell’esibizione. Nessuna smorfia di prezzemolini à la Rudy Zerbi, un livello di vocalità media talmente alto da superare quello di molti finalisti di altri talent show.
In tutto questo c’è Fabio Troiano dal ruolo non meglio identificato. Se fosse per lui passerebbero scioccamente tutti, fa l’amicone finto tonto e alterna, a differenza dei giudici, altrettanta bontà a un atteggiamento bonaccione poco professionale. Anche di lui, per ora, salvo solo la voce, nel senso che è meglio quando si sente che quando si vede.
Mi auguro vivamente che The Voice funzioni, comunque, perché se lo merita per una confezione spettacolare (specialmente nella versione Hd) e un meccanismo emotivamente coinvolgente. Il montaggio non sarà frenetico come quello di Got Talent, ma restituisce un approccio alla gara di talenti meno nevrotico e più meritocratico (anche di The Winner is).
Perciò resta un’occasione mancata non vederlo su RaiUno, nella cui linea identitaria edificante sarebbe rientrato a pieno. La Rai ha sbagliato a non invertirlo con Red or black e a controprogrammargli una fiction di successo, proprio su quel target Over che meritava di prendere.