Mission, le Ong (e il Pd) protestano: “Programma inaccettabile, lede dignità dei rifugiati”
Alcune associazioni non governative e petizioni lanciate online chiedono lo stop del reality di Rai1.
UPDATE ore 20.17 – A proposito di Mission e delle polemiche a seguito segnaliamo che già nella giornata di ieri è stata depositata presso la Commissione di Vigilanza del Servizio Radiotelevisivo Pubblico un’interrogazione parlamentare urgente dal deputato Vinicio Peluffo, capogruppo del Pd nella stessa Commissione. Ecco le parole dell’esponente democratico, che si rivolge ad e Anna Maria Tarantola e a Luigi Gubitosi:
Abbiamo appreso dagli organi di stampa che la Rai starebbe progettando per la stagione televisiva autunnale un nuovo reality show definito ‘docureality a sfondo sociale’, che vede personaggi famosi inviati nei campi profughi a fianco di operatori umanitari dell’UNHCR. Interrogo quindi il presidente e il direttore generale dell’Azienda per sapere se la notizia corrisponda al vero e, in caso affermativo, chiedo loro se ritengano veramente necessario confermare un programma basato sulla spettacolarizzazione del dolore. (…) Ritengo, infatti, che lo sfruttamento della sofferenza sia contrario ai principi di etica dell’informazione e, ancor di più, non sia in linea con la missione del servizio pubblico radiotelevisivo.
Mission, le Ong protestano: “Programma inaccettabile, lede dignità dei rifugiati”
Più che Mission, il rischio qui è che diventi una mission impossible. La messa in onda è prevista per il 27 novembre e il 4 dicembre (o forse il 4 e l’11 dicembre), ma è già polemica intorno a Mission, il nuovo reality di Rai1, che vedrà protagonisti otto vip, tra i quali Emanuele Filiberto di Savoia (come anticipato da TvBlog), Michele Cucuzza, Albano e Barbara De Rossi, chiamati ad aiutare gli operatori dell’Unhcr (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e dell’ong Intersos.
Infatti molte associazioni e organizzazioni non governative stanno protestando definendo il programma “inaccettabile” e persino “lesivo della dignità di chi deve fuggire dal proprio paese a causa di guerre o persecuzioni”. Contestualmente alle proteste arriva anche la richiesta di fermare le riprese del programma (per ora sarebbe stato registrato solo un numero zero).
In particolare il Gruppo Umana Solidarietà (Gus) ha tuonato:
Forse è vero che al peggio non c’è mai fine, ma questa cosa è incredibile. Siamo certi che anche il Papa, nel suo recente viaggio a Lampedusa, non si riferisse a un ‘reality’, quando auspicava e desiderava che si ponesse attenzione al dramma di chi fugge dalla propria terra, ma forse siamo noi a sbagliarci. Abbiamo difficoltà a credere che gli ideatori di questo programma abbiano mai visto territori martoriati dalle guerre o fatto esperienze di Cooperazione internazionale. L’aiuto ai popoli in fuga, ai profughi nei campi di accoglienza non passa da uno spettacolo che cerca di impietosire il pubblico di casa al quale chiedere poi un sms solidale a favore di organizzazioni che, con una mera operazione commerciale, hanno reso possibile questo programma. Se la Rai avesse voluto raccontare il lavoro di tante Ong nei territori di guerra o nei campi lo avrebbe potuto fare in altri modi. Purtroppo si è spesso dedicata, anche nelle ultime emergenze, a far vedere gli sbarchi e poco più e ad amplificare le polemiche di italiani contro i migranti, di poveri contro disperati.
Sulla stessa lunghezza d’onda anche il Centro Astalli, il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati. Il presidente Giovanni La Manna all’Adnkronos ha lamentato il fatto che “tutto ciò che finisce in televisione diventa spettacolo, al di là delle intenzioni di chi vorrebbe portare all’attenzione dell’opinione pubblica la vita di queste persone”. Il gesuita ha argomentato:
Il pericolo è di provocare l’emozione dello spettatore per il solo tempo della visione, poi si cambia canale e si passa ad altro. (…) È vero che molti sono alla ricerca di esperienze forti, ma bisogna chiedersi come sensibilizzare la gente, non solo a livello emotivo. La nostra posizione è quella di promuovere un incontro diretto fra i veri rifugiati e le persone in un contesto però dove diritti e dignità siano salvaguardati. La Rai poteva fare un documentario senza usare vip. Così è inevitabilmente una cosa artificiosa, dietro la quale c’è sempre l’interesse di fare ascolti. E non si può sensibilizzare davvero su un tema se a muovere tutto ci sono logiche di mercato. Tutto questo mette grande tristezza.
Alla rassegna delle contestazioni preventive si aggiunge anche il Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir), il cui direttore Christopher Hein pur ammettendo che il reality “sicuramente potrà avere un effetto positivo, quello di far conoscere al grande pubblico il tema dei rifugiati, in un contesto caratterizzato da una totale penuria di spazi informativi” ha osservato che “il prezzo da pagare è, per noi, troppo alto”:
Il rischio di strumentalizzazione, di un utilizzo inappropriato di immagini, storie e pezzi di vita di persone in condizione di estrema vulnerabilità, è davvero elevato. Qual è il messaggio che verrà fatto passare? E quale è il costo che i rifugiati coinvolti dovranno pagare? Il reale cambiamento comunicativo è quello di riuscire a parlare dei rifugiati non attraverso un uso spettacolaristico delle loro storie, ma riuscendo a cambiare la cultura dei media in questo paese. E come Consiglio Italiano per i Rifugiati non crediamo davvero che questo programma possa raggiungere questo obiettivo.
Non è finita, perché a mobilitarsi è anche la Rete tramite due petizioni che mirano a fermare il reality. Una lanciata dalla piattaforma Change.org “per un senso di indignazione verso la spettacolarizzazione di tragedie umane come quelle dei rifugiati”, l’altra dal sito Activism.org per chiedere “l’interruzione delle riprese, la sua cancellazione da parte della Rai e un passo indietro da parte dell’Unhcr”. Anche l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e l’Intersos sono finite sul banco degli imputati:
Ancor più inaccettabile è il comportamento di Unhcr e Intersos, che si sono prestate a questa iniziativa, rinnegando i valori di umanità ed etica professionale che dovrebbero caratterizzarle. A tale proposito ricordiamo la Carta di Roma del 2008, ossia un protocollo deontologico concernente l’utilizzo dell’immagine e dell’identità di rifugiati, richiedenti asilo, migranti e vittime di tratta redatto dall’Ordine dei Giornalisti e dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana in collaborazione proprio con l’Unhcr. Esistono altri codici per fare informazione e dare visibilità alle varie comunità di rifugiati nel mondo.
Ovviamente è doveroso dare conto anche della difesa di chi dà vita al programma umanitario. Emanuele Filiberto per esempio ha precisato che “non è un reality ma un docu-reality in cui dei personaggi noti vanno a lavorare con delle ong”. Poi ha aggiunto, ribaltando l’accusa di strumentalizzazione e rivelando un particolare non da poco e cioè che i vip non percepiranno cachet:
È un programma interessante e utile perché farà vedere alla gente, da un’angolazione diversa, il grande lavoro che fanno le organizzazioni umanitarie. Non vedo dov’è la strumentalizzazione, piuttosto è strumentale la polemica di chi parla senza aver visto e capito cos’è il progetto. Tra l’altro non c’è nessun premio in palio né un cachet, io non ho preso un euro. Non solo, ma tornando mi sono impegnato a sostenere due progetti per i bambini soldato in Congo.
Marco Rotelli, segretario generale di Intersos, ha spiegato:
Quando abbiamo deciso di aderire a questo esperimento di comunicazione eravamo ben consapevoli di esporci a critiche, commenti e di suscitare interrogativi purtroppo, anche qualche insulto. Da molti anni le organizzazioni umanitarie dibattono sulla comunicazione, su metodi e limiti del loro rapporto con il pubblico. Quanto alle crisi umanitarie, l’opinione condivisa da molti è che se ne parli troppo poco: tranne in rare eccezioni, solo quando gravi tragedie scuotono le emozioni del grande pubblico e si accende la luce mediatica sulla sofferenza di milioni di persone, altrimenti dimenticate. Proprio per dare riconoscimento a queste persone, in particolare ai rifugiati abbiamo accettato di partecipare al programma. (…) Ci è stata offerta questa possibilità. L’abbiamo valutata, considerata rischiosa per l’immagine dell’organizzazione ma unica per il potenziale di diffusione che portava con sé. Abbiamo quindi chiarito bene le cose, gli obiettivi, i limiti e le modalità, a garanzia di tutto quello che cerchiamo quotidianamente di salvaguardare, a partire dalla dignità di ogni essere umano. Infine, abbiamo deciso di partecipare. La causa ci è sembrata più importante dei rischi di una simile operazione.