Non si può fare un talent-degli-scrittori-primo-caso-nel-mondo-autoprodotto e appaltarlo a una casa di produzione internazionale esterofila. La Fremantle ha portato in Masterpiece il suo know-how, vale a dire ha preso degli scrittori egocentrici, li ha messi a fare i i giudici cattivisti in posa à la MasterChef, con postproduzione copiata sputata da X Factor , e ha sopperito alla difficoltà del racconto con un lavoro autorale gigionissimo.
Alle selezioni c’è un minimondo degno del Grande Fratello 2014, ovvero di “largo alla gente vera”, tipo il carcerato, l’anoressica, il segaiolo. Gente di varia umanità accomunata dalla disperazione, che sembra essere il primo cliché per un aspirante scrittore ai tempi dell’emotalent.
Masterpiece ci dà la sensazione che, come per vendere dischi bisogna diventare i tipici cantanti da Amici, così per vendere libri bisogna da subito essere personaggi, strumentalizzare la propria biografia perché sia subito caso umano, più che esperienza di vita.
Non a caso, a battere nella prima puntata una signora noiosamente perbenino è stato l’adolescente con il nome da donna, Lilith (perché sua madre voleva una femmina).
Rispetto al format i giudici hanno una supponenza spropositata, non riuscendo a convincerti del loro quid culturale. Per un De Cataldo quantomeno sornione e ironico c’è un De Carlo pretenziosissimo, forse il più Cracchesco. Taiye è la componente esotica, colei che dovrebbe sparigliare e sedurre ma ostenta a volte una seriosità forzata.
Per non parlare di Coppola, colui che dovrebbe essere il coach e invece si atteggia ad analista che non è, raccogliendo gli psicodrammi degli aspiranti prima che si presentino dai giurati.
A Masterpiece tutti consigliano di non essere egoriferiti, persino Luca Bianchini sui titoli di coda, sembrando tutti dei buoi che danno del cornuto all’asino. Poi c’è il problema della mancata centralità dei romanzi, di cui vengono svelati a volte persino i finali, oltre a essere mal presentati (perché non far comparire il testo dei passi letti in sovrimpressione?).
Chi si prenderà la briga di andare in libreria a comprare questi libri? Non sarà, semmai, che un programma come Masterpiece serve a indirizzare gli spettatori sintonizzati verso le scuole di scrittura, creando l’illusione della ricetta perfetta per sfornare best-seller?
A vederlo, più che aver voglia di imparare qualcosa si finisce per non fidarsi più di nessuno, neanche delle case editrici, e per costruirsi un proprio pubblico direttamente in rete, senza intermediari che ti ascoltano con la puzza sotto al naso in ascensore.
Il problema di Masterpiece, in definitiva, è che sembra già visto per quanto parte omologato agli altri talent. Ma a ciò si aggiunge un equivoco imperdonabile per una rete colta come RaiTre: se vuoi creare bestseller non puoi ammiccare alle bimbaminkia della Feltrinelli con prove di scrittura da scuole medie.
Masterpiece: la prima puntata (foto)