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Mission, la difesa di Leone e il format che Rai 1 non fa fatto

Giancarlo Leone difende Mission dopo la prima puntata e chiede di sostenere un progetto coraggioso come quello di parlare dei rifugiati in prima serata sull’Ammiraglia Rai. Ma ci sono anche modi diversi per farlo…

pubblicato 8 Dicembre 2013 aggiornato 3 Settembre 2020 10:57

Giancarlo Leone difende Mission a spada tratta in ogni occasione possibile: ieri l’occasione è venuta a Tv Talk che ha dedicato parte della sua puntata proprio alla difesa del programma di Rai 1, attaccato fin da prima del suo debutto.

Non c’è scampo, insomma, per questa Mission, da qualunque punto di vista lo si guardi: vip troppo ‘vip’, reality senza reality, documentario troppo patinato, operazione in fondo senza identità sono state tra le critiche che più di altre hanno accompagnato il giorno dopo. E in questo senso l’analisi del prof. Simonelli mi è sembrata particolarmente efficace:

“Se posso dire, Mission mi è apparso in fondo privo di un’identità di genere: un po’ talk, un po’ raccolta fondi, un po’ documentario, e poi  l’idea che fosse un reality era stata fatta circolare e quindi io poi lo vado a cercare il reality. Ma non c’era. Anziché superare il genere e sperimentare ho impressione che sia stata una sovrapposizione di genere. Non mi stupisce abbia fatto pochi ascolti:il programma non era riconoscibile e il pubblico cerca la riconoscibilità”.

Un discorso quindi squisitamente televisivo, al netto delle intenzioni socio-umanitarie che invece vengono chiamate più volte in causa dal Direttore per ‘sensibilizzare’ opinione pubblica e critici e invitarli a sostenere un prodotto sperimentale e innovativo testato nel prime time dell’ammiraglia Rai, con contenuti mai tentati prima su una generalista.

“Quando sono diventato direttore mi dicevano: ‘Ricordati che ti verrà perdonato tutto tranne il non fare ascolti’. Ma la questione è possiamo rischiare o dobbiamo sempre immaginare programmi a uso e consumo dell’ascolto? Rai 1 è una rete che si può permettere il lusso di sperimentare più volte durante l’anno, perché è una rete che nel prime time ha mantenuto sostanzialmente gli stessi dello scorso anno”

dice Leone che parte proprio dagli ascolti per arrivare ai contenuti.

“Dobbiamo osare, soprattutto per cause nobili, come la cultura o come in questo caso temi umanitari, e dobbiamo trovare nuove forme di linguaggio quale questa è. Mi rendo conto che sia spiazzante tentare di incasellarlo in un genere: non c’è un genere come questo”

semplifica il direttore, limitandosi a distinguere la parte in studio da quella del docu-reality, che in realtà fa più docufiction, vista la mancanza di immedesimazione dei vip nelle situazioni rappresentate, rendendo gli ‘ospiti famosi’ degli osservatori speciali, simulacri del pubblico rimasto a casa. Ed è lo stesso Leone che in qualche modo si tradisce definendo quella del docureality con Al Bano e Pannofino “la parte del film”.

Non si entra mai nei modi in cui è stato portato avanti il racconto. Si insiste invece sulla necessità che l’opinione pubblica non si scagli ‘a prescindere’ su prodotti nuovi o diversi, per di più se a scopo benefico.

“C’è chi l’ha chiamato flop. Ecco, se non ci aiutiamo tutti quanti  a dire ‘Rischiamo, osiamo’ soprattutto per una causa giusta… se io oso nel fare un programma comico si può discutere, ma se io cerco di portare dei contenuti mai visti prima in prima serata e su RaiUno trovo sbagliato che chi analizza, e chi parla, e chi fa il cronista tv debba bollare con flop o insuccesso un programma che cerca  la sua strada. Questo provoca in chi ha paura, e la Rai e io personalmente non ne abbiamo, l’ingessamento di fare cose nuove. Ci dobbiamo permettere di prendere questi rischi, anche si sbagliare, se tutto questo è fatto con una finalità, culturale o civile”.

Sembrerebbe quasi un ‘non sparate sulla Croce Rossa’, ma trattandosi di un prodotto tv a mio avviso può essere criticato a prescindere dalla dichiarata finalità benefica e filantropica. Se le polemiche ‘pre’ Mission hanno riguardato il ‘contenuto’, dopo la messa in onda sono emersi i limiti della ‘forma’. Il problema, a mio avviso, non è quanto sia stato coraggioso parlare di rifugiati in prima serata, ma quanto si sia stati guardinghi e poco coraggiosi nel ‘raccontarli’, nel confezionare i prodotto, nel proporlo ai telespettatori.

“Abbiamo aperto una strada sicuramente perfettibile e migliorabile”

ha aggiunto Leone,

“Anche io mi riconosco di più nel linguaggio del docureality che dello studio. Insisto, noi stiamo sperimentando in tempo reale e non lo stiamo facendo su un canale tematico, ma su quello più importante d’Italia e nella fascia più importante. Potevamo farlo anche in seconda serata, ma noi volevamo portare al pubblico della prima serata qualcosa che non solo non ha visto ma non avrebbe mai potuto vedere”.

In questo il ‘confronto’ proposto da Tv Talk con un format australiano a tema ‘rifugiati’ è a mio avviso impietoso ed è proprio quello scatto di coraggio che forse è mancato a Rai 1, quel tocco di reality che invece è stato sostituito dalla fiction.

Parliamo di “Go Back From To Where You Came From”, letteralmente “Torna da dove sei venuto” o più cinicamente “Tornatene a casa tua”, format realizzato dall’australiana SBS e di cui sono andate in onda già due stagioni. Sei australiani, gente comune nella prima edizione e vip nella seconda, sono stati chiamati a “vedere il mondo con gli occhi dei rifugiati” e spediti nei luoghi più infernali del Pianeta, dall’Afghanistan all’Iraq, dai campi profughi in Kenya al Centro di accoglienza per i richiedenti asilo di Christmas Island, nell’Oceano Indiano. Vivono da rifugiati o da baraccati, senza documenti o cellulari, provando sulla propria pelle cosa hanno passato quei disperati che ogni giorno sbarcano sulle coste australiane. Un modo per smontare così alcuni dei luoghi comuni più frequenti e per fare luce su un fenomeno come quello dell’immiragrazione clandestina e dell’accoglienza ai rifugiati molto sentito in Australia. E figuratevi quanto lo sia da noi.

Tre puntate per stagione, più uno speciale in studio per fare il punto sulle esperienze vissute, che si incentra proprio sul concetto di docu-reality e non di docufiction. Come accennato, nella seconda stagione, quella vip, ha coinvolto un ex-ministro ‘ostile’ all’immigrazione, un conduttore radiofonico, una modella, un’attrice comica, insomma volti noti del mondo politico e popolare australiano.

Un Pechino Express non meno ‘esotico’, ma di certo civico, che porterebbe in prima serata tutto quello che a Mission è mancato, dal reality all’aggancio con la realtà dell’immigrazione clandestina, che è proprio l’elemento da cui è partito il format della SBS. Ed è proprio questo il format che l’allora portavoce dell’Unhcr Laura Boldrini propose alla Rai quando, un paio di anni fa, si iniziò a ragionare del progetto di Mission.

Ma sarebbe stato un format forse troppo ‘politico’ per il prime time dell’Ammiraglia Rai, magari ancora troppo ‘choccante’ per il pubblico, che in questo caso sarebbe chiamato direttamente in causa e non solo ad assistere a un dramma. Ma confidiamo che in un futuro non remoto ci si arrivi (e soprattutto non si confondano più i generi: si rischia di non distinguere più fiction da reality).