Inizia a masticare televisione nella Rai3 di Angelo Guglielmi (quale scuola migliore). Collabora con Chi l’ha visto, poi passa nella Rai2 di Carlo Freccero e nasce Passioni. Fra i suoi titoli Sfide e La Pupa e il secchione. Due lati opposti di ciò che la televisione può offrire, ma anche due lati della medaglia di Simona Ercolani, padrona di casa oggi a “Fuori gli Autori“. Ha scritto anche i testi di alcuni Festival di Sanremo e nel 2010 fonda una sua casa di produzione (Stand by me). Fra le sue ultime creature Emozioni e Sconosciuti. Signore e signori, ecco a voi Simona Ercolani.
Il miracolo che si ripete ogni volta
“? davvero un peccato, Simona: sei portata per questo lavoro, ma nelle tue condizioni…”.
La mia carriera in tv, a 22 anni, anziché cominciare stava per concludersi sul nascere con un licenziamento in tronco. Ero incinta e, a giudizio del mio capo di allora, in quelle “condizioni” non c’era posto per me. Come se invece di una figlia, fosse in arrivo una malattia degenerativa terminale.
Da un anno e mezzo lavoravo come assistant producer per una piccola casa di produzione indipendente. Avevo un contratto di apprendistato part time, ma in realtà lavoravo tutto il giorno, e spesso anche la sera. Mi piaceva molto, mi sentivo una ragazza fortunata e il divertimento, misto alla curiosità, cancellava la stanchezza. A vent’anni, del resto, l’entusiasmo è una specie di benda che il destino benevolo ci pone sugli occhi. Facevo tutto, dalle pulizie ai report delle riunioni, dallo spoglio delle sceneggiature ai rapporti con il dipartimento stampa e sviluppo di Cinecittà – in quegli anni lontani si usava ancora la pellicola -, dalla cura del telecinema (che è appunto il trasferimento della pellicola su nastro magnetico) ai lavori di segreteria.
Fino a che non sono rimasta incinta della mia prima figlia. Il mio capo, appena avuta la notizia, mi convocò: non per congratularsi, ma per licenziarmi.
Dopo la nascita di Francesca, ritrovare lavoro in tv non ? stato facile. Tutte le settimane compulsavo gli annunci sui giornali nella speranza di un’occasione, e intanto lavoravo senza troppo entusiasmo in uno studio di ingegneria. Mi era anche arrivata la chiamata dalle poste, che annunciava il buon esito di un concorso fatto alla fine del liceo: ma dissi di no, perché volevo fare la televisione, ero incosciente ed ero ottimista, molto ottimista.
Dopo un anno passato a battere a macchina computi metrici e ad allattare, a guardare la tv e leggere romanzi, finalmente leggo l’annuncio che aspettavo: “Piccola casa di produzione cerca assistente”. Era il mio annuncio: e così ricominciai a lavorare per la tv. Niente di fondamentale, naturalmente: ma ero rientrata nel grande circo, e tanto mi bastava.
La svolta arriva grazie alla “svolta” di Occhetto: nel 1991 il Pci celebrava a Rimini il suo ultimo congresso e io volevo girare, a mie spese, un documentario che raccontasse il punto di vista – frastornato, ingenuo, curioso – del militante di base. Mi feci prestare da un amico una minuscola (per l’epoca) e rivoluzionaria handycam e partii per la riviera romagnola. Girai tutto, ma proprio tutto. Filippo Ceccarelli, che allora scriveva per la Stampa, si accorse di me e decise di seguirmi nel giorno in cui Occhetto avrebbe dovuto essere eletto segretario.
Il congresso finì nel caos, Occhetto non fu eletto e Ceccarelli raccontò il dramma del nuovo partito attraverso gli occhi di una ragazza con la telecamerina (in quel congresso, per una curiosa coincidenza, conobbi anche il mio attuale marito).
Giuliano Ferrara, che faceva “L’Istruttoria” su Italia1, lesse l’articolo e mi chiamò per avere l’esclusiva del girato, senza però consentirmi di montarlo: rifiutai la sua generosa offerta. L’indomani si fece avanti Stefano Balassone, il vicedirettore di Rai3. Mi sembrava di sognare: la Rai3 del mitico Guglielmi era interessata a qualcosa che avevo girato io. Guardarono il materiale e mi proposero di montare 17 minuti come volevo io, senza indicazioni di sorta, in assoluta libertà.
La tv di allora – o almeno quella che ebbi la fortuna di conoscere io – funzionava così: il compito e la funzione dei dirigenti consisteva nel consentire a ciascuno di sviluppare la propria creatività, aiutandolo e stimolandolo senza costringerlo mai in uno schema preordinato, deciso da altri e astrattamente valido per tutti. Si stimolavano le differenze, non si imponeva l’omogeneità: gli autori, anche i piccolissimi come me, erano individui e non, come troppo spesso accade oggi, esecutori del pensiero unico del dio format.
Di quella prima esperienza ricordo soprattutto l’impatto con la sala di montaggio. Quando ti siedi per la prima volta, il monitor è nero come la notte e una pila disordinata di cassette ti sfida minacciosa e beffarda. Quando ne esci – stanca ma felice, come in tutte le favole – c’è un racconto che vive da sé e che andrà per la sua strada. Ogni volta, ancora oggi, mi stupisco del miracolo che si ripete.
Il mio rapporto con la Rai da allora non si è mai interrotto. I miei maestri li ho incontrati tutti nelle redazioni della tv pubblica. Ho lavorato con Anna Amendola, che curava “Storie vere”, un programma di documentari divenuto ben presto la palestra di molti giovani talenti (Mimmo Calopresti, Paolo Taggi, Claudio Canepari) accomunati dalla voglia di raccontare una storia – qualunque storia, anche la più semplice o la più banale, perché ogni storia contiene un frammento del grande mondo, e ha qualcosa da dire a ciascuno di noi.
Ho lavorato per cinque anni a “Chi l’ha visto?”, facendo l’inviata su e giù per l’Italia e montando ogni settimana il mio servizio sotto la guida attenta e affettuosa di un grande maestro di scrittura televisiva come Piero Murgia. E poi ho provato a fare il “mio” programma di storie, “Sfide”, che va in onda ancora oggi. Di sport sapevo poco e, a dire il vero, neppure adesso mi sento un’esperta: ma avevo imparato l’arte e la tecnica del racconto – che è un po’ come saper leggere la bussola o le stelle: dovunque tu sia, puoi ritrovare la via di casa.
Adesso va molto di moda parlare di storytelling, e non c’è conferenza o articolo che non ne sottolinei l’importanza: ma è dai tempi delle caverne che raccontiamo storie, e da allora non è poi cambiato molto. Siamo animali narranti, ed è per questo che capiamo al volo una storia, molto più di un algoritmo o di un concetto. Le storie tengono insieme il tempo e lo spazio, li mettono in ordine così da produrre un significato e un senso comprensibili: e anche la televisione funziona così.
Nel corso degli anni ho fatto un po’ di tutto, come del resto la gran parte dei miei colleghi: l’intrattenimento, i documentari, l’adattamento di format stranieri (che è un lavoro bellissimo, nonostante le apparenze, perché consiste nel tradurre una cultura in un’altra), persino il “Festival di Sanremo”, che per noi televisivi è un po’ come giocare a Wimbledon o correre i cento metri alle olimpiadi.
Poi, nel 2010, ho deciso di cambiare lavoro: o, per meglio dire, ho imparato la lezione degli americani, che com’è noto sono gente pratica, rispettosa e molto attenta al risultato. Il producer – che si potrebbe tradurre con “produttore creativo”, se in italiano non suonasse un po’ troppo presuntuoso – deve saper coniugare creatività e budget, perché senza i soldi le idee non diventano programmi, e senza le idee i soldi alimentano soltanto una catena di montaggio più o meno efficiente.
Lavorare come producer, come da quattro anni sto facendo con la mia “Stand by me”, consente di controllare meglio e con più cura il prodotto, e soprattutto impone una disciplina che, paradossalmente, non va a scapito della creatività ma in un certo senso la esalta, perché costringe ogni giorno a trovare soluzioni e a risolvere problemi all’interno dell’unico mondo davvero reale – che non è la tv, naturalmente, ma è il mercato.
Ogni giorno la sfida si rinnova, e forse è questa la mia più grande soddisfazione. Ogni giorno si compie la magia del monitor nero come la notte che per incanto, con fatica e con passione, si trasforma in una storia da condividere con chi sceglie di guardarla sullo schermo di casa. Il nostro è un lavoro di gruppo, la nostra è una piccola macchina dove ogni ingranaggio è essenziale e dove le idee si trasformano e si arricchiscono e sembrano scomparire e poi ritornano all’improvviso grazie alla passione e alla cura di molte persone. E se un programma non funziona o viene male o nessuno lo vede, presto ce ne sarà un altro un po’ migliore o più fortunato.
A Stand by me lavorano molte ragazze: e quando nasce un figlio – finora ne sono nati tre, e un altro è in arrivo – festeggiamo tutti insieme.
Simona Ercolani