Alberto Silvestri: L’alter ego di Costanzo raccontato da Maurizio
Il conduttore del Maurizio Costanzo Show racconta il suo coautore Alberto Silvestri nel libro “Le mie tele-visioni”.
Si dice che ci sia una grande donna dietro ad un grande uomo, ma nel caso nostro, ci può pure essere un grande uomo, dietro ad un grande uomo. Estate, vacanze, tempo di riposo ma anche di grandi riflessioni su quello che è stato e su quello che sarà. Uno degli esercizi più frequenti di questo periodo dell’anno è senza ombra di dubbio leggere libri. Fra quelli che toccano più da vicino questo blog, che è pur sempre un sito che parla di televisione, c’è anche l’ultima fatica letteraria di Maurizio Costanzo: Le mie tele-visioni.
Si tratta di un viaggio lungo la carriera televisiva del grande giornalista romano, dagli inizi di Bontà loro, fino al Maurizio Costanzo Show, scritto proprio poco prima che il più popolare e longevo talk show della televisione italiana tornasse in onda su Rete4 la domenica in prima serata (Lo show tornerà per un altro ciclo di 4 puntate a novembre sempre su Rete4). Costanzo ci accompagna nella sua carriera televisiva, attraverso i suoi ricordi delle varie tappe che ne hanno contrassegnato il viaggio.
Uno dei capitoli più a cuore aperto di questo libro, è senza ombra di dubbio quello dedicato ad Alberto Silvestri, coautore del Costanzo Show. Maurizio racconta Alberto in alcune righe di questo volume, righe che ci consegnano un Costanzo legatissimo a questa persona. Ecco ampi stralci di questo scritto:
Non ci sarebbe stato il Maurizio Costanzo Show come l’avete conosciuto e come l’ho conosciuto anch’io senza Alberto Silvestri, che ne é stato l’anima per molto tempo.
Il Maurizio Costanzo Show era agli inizi, stavamo al Sistina, allora. Era il 1982-1983, e tutto andava bene. Mi era stata affidata la sceneggiatura del primo episodio di un telefilm e siccome sono un bulimico da lavoro non dissi di no e mi presi l’impegno. Mi serviva però una mano, me ne resi conto presto. Così chiesi al mio amico Pupi Avati se avesse qualcuno da presentarmi, uno sceneggiatore, e lui non ebbe dubbio nell’indicarmi Alberto.
Alberto non era un novello del mestiere: aveva alle spalle Yuppy Du e Sandokan e a dire il vero esperienza del piccolo schermo l’aveva maturata a fianco dell’immarcescibile Pippo Baudo.
Alberto era diventato per me una specie di seconda, speculare coscienza. Eravamo anche fisicamente diversi, una composizione umana simile a quella di Stanlio e Ollio.
Era di un eleganza impeccabile. Se mettiamo, la mattina arrivava con un completo di lino bianco, la sera il suo abito sembrava appena uscito dalla tintoria, mentre noi tutti eravamo sfatti. Non si sedeva mai. Era un perfezionista. Se una scenografia da montata non gli piaceva la faceva buttare, ne faceva fare un’altra e aveva ragione lui….
So che chi lavorava con lui e a un certo punto tutto il mio gruppo di lavoro ha lavorato con Alberto, aveva un misto di rispetto reverenziale e amore nei suoi confronti. Anche se era molto duro con chi sbagliava, allo stesso tempo era capace di atti di grande generosità e tenerezza. Se vedeva che uno, anche un macchinista, non dico un autore o il regista stava giù di morale perché si era separato o viveva un brutto momento se lo portava a pranzo e cercava di tirarlo su offrendogli una bottiglia di vino pregiato. Se invece una puntata non era andata bene, pur dopo una già lunga giornata di lavoro radunava la redazione in interminabili sedute di coscienza e meno male che io avevo l’esonero….
Alberto si metteva ieratico in piedi, sempre in piedi e io mi affidavo a lui che mi dava riscontri in corso di puntata come un cartello vivente. Mi fidavo totalmente di lui. Tanto che a un certo punto gli affidai la redazione tutta. Decidevamo -Alberto e io- le linee di massima, poi lui guidava il gruppo, cosa che inizialmente facevamo insieme. “No , fallo tu” , gli dissi una mattina. Forse non so, essendo un infaticabile stacanovista ai limiti dell’ossessivo , la domenica deliziava la famiglia leggendo migliaia di lettere arrivate all’ attenzione del programma, devo aver contribuito a questa sua deriva che gli è costata poi cara.
Aveva passioni e vizi come tutti, più di tutti. Per esempio amava le penne e le collezionava. Quando è morto il lascito in strumenti da scrittura era di diversi milioni di lire. Il vizio era che non amava i medici che si curava da solo. Venni a sapere, non da lui, che quando si mise a seguire anche i programmi di mia moglie aveva una ferita ad una caviglia che non si rimarginava e si imbottiva di medicinali e stava sempre in piedi per tutta la puntata , ogni puntata. Io lo guardavo ma mai un’espressione di sofferenza. Provo ammirazione per la sua capacità statuaria di vivere, direi, anche una certa apprensione però. Avevo capito che tirando la corda, anche una statua poteva cadere.
E cadde un giorno, sotto Natale, per un infarto. Corsi al San Camillo e lo portai con un volo privato a Pavia, dove un mio amico medico gli impiantò alcuni bypass. Mario Viganò, che lo aveva operato con successo, mi disse che Alberto doveva cambiare vita, troppo stress poteva essere letale. Aveva anche il diabete. E lì forse commisi un errore: lo sollevai dagli incarichi che mi riguardavano a favore di Maria, con la scusa che lei aveva più bisogno di lui di me, che ormai ero diventato grande. Intendevo proteggerlo in verità. Se gli avessi riferito le parole di Viganò sono certo che ancora oggi se ne sarebbe fregato, che starebbe ancora in piedi, da qualche parte, qui,davanti a me (cosa che, prendetemi per pazzo, ma a volte credo).
Alberto la prese malissimo, non mise più piede al teatro Parioli, che era stato il nostro, ma sopratutto il suo teatro, il suo regno. E così è andata: lui con Maria, io con i miei: Marina Nocella, Luisella Testa, Piera Leoni e Giorgio Gambino. Poi persi Gambino. Rimanemmo Marina, Luisella (che è mancata recentemente, ndr) Piera e io. Erano ragazze diventate grandi, erano prima redattrici, ora autrici. Avevano avuto la scuola migliore della terra: quella di Alberto Silvestri. Non c’è nulla di meglio, credetemi nessuna università, nessuna comunicazione, nessuna scienza. C’era solo Alberto.
Poi nel 2000 Silvestri lasciò tutto e ritirò a Fregene, sul litorale vicino a Roma. Un anno dopo mentre stavo andando a Milano per alcuni impegni tra cui un incontro con Berlusconi e la consegna dei telegatti, appena atterrato all’aeroporto m’informarono che Alberto stava male. Poco dopo mi dettero la notizia: era morto. Tenni la cosa per me, soffocata dentro. Incontrai Berlusconi che mi vedeva cupo, dissimulai. A Maria che conduceva la serata dei premi non dissi niente. Rifiutai di scrivere il “coccodrillo” che il Messaggero mi chiedeva. Il direttore insistette e allora dettai d’impulso, fino a che a un certo punto non riuscii più a parlare. Volevo solo piangere, ma io non piango.
Pupi Avati aveva detto di Alberto: “E’ pure meglio di me”. Sono d’accordo con Avati, nel senso che vale anche per me. E’ stato il mio alter ego. Abbiamo avuto divergenze solo sulla cosiddetta tv del dolore: essendo imperante e ormai si, diventata logora, io volevo distaccarmene mentre lui avrebbe continuato su quel sentiero. Cambiammo strada. Quasi per gesto involontario, chissà quante volte dopo che è venuto a mancare mi sono girato verso il dietro le quinte cercando la sua figura certa, sicura, in piedi, con le braccia conserte, i suoi gilet, la penna nel taschino.
Nella mia vita professionale ho collaborato e collaboro con altri autori di calibro come Enrico Vaime, per molto tempo con Marcello Marchesi, ma il rapporto di fiducia totale che ho avuto con Alberto, un rapporto di stima e di amicizia, non l’ho più avuto. Non l’avevo prima, non l’ho avuto dopo e non lo avrò mai più. Ecco con la morte di Alberto Silvestri ho perso un amico. Un amico un po’ chiuso caratterialmente, molto spiritoso, decisamente dandy, un creativo, un fantasista, un lettore molto forte, un uomo di scrittura.
Gli uomini di scrittura, quelli veri, non quelli velleitari che con i loro libri ci incarti le uova, sono uomini superiori nel senso che da lì, dalla capacità di organizzare un discorso, di creare una scena, non solo di immaginare ma con tecnica artigiana di costruire un mondo, sono gli uomini che amo di più. Alberto era una di loro. Aveva l’abitudine di scrivere in auto, dentro la macchina, accostato da una qualche parte che non ho mai saputo dove fosse.
Maurizio Costanzo
(tratto da “Le mie tele-visioni”, edito da Mondadori)