Nuova puntata oggi del secondo ciclo di Fuori gli Autori. Oggi ospite e contemporaneamente padrone di casa a TvBlog è Giovanni Filippetto.
Nato a Roma nel 1964. Autore televisivo, giornalista, sceneggiatore e regista. Ha partecipato alla realizzazione di numerose trasmissioni televisive e docufiction. Nel corso degli anni ha lavorato con Rai, Mediaset, La 7 e Sky. Specializzato in docufiction, ha spaziato lungo tutti i generi della tv: infotainment, varietà, talk show, factual, docureality, magazine d’approfondimento e documentari. Dal 1984 a oggi ha realizzato film-tv, trasmissioni televisive, documentari, numeri pilota e filmati istituzionali come sceneggiatore, autore testi, regista e redattore. Nel 2003/2004 ha scritto racconti per la rivista letteraria “Accattone”.
Sull’orlo del precipizio
Rifletti sul tuo lavoro di autore di programmi televisivi e ti viene in mente un istante: è il momento preciso in cui capisci che qualcosa dentro di te è cambiato, che il tuo lavoro sta andando in un’altra direzione, che si sta modificando il modo in cui vedi le cose, in cui riesci ad ottenere l’attenzione di chi ti ascolta. E’ l’esatto momento in cui quello che stai facendo lo fai diventare una storia.
Può essere un’idea, un’intuizione, una battuta, una notizia, una grafica, una canzone, un’intervista, un’azione di gioco, l’apertura di un pacco, un titolo, una scaletta, una discussione, una discorso, una riunione, un incontro. E sai bene che quella parola, “storia”, abusatissima da tutti e da tutti pronunciata, non vuol dire necessariamente primo, secondo e terzo atto; non vuol dire narrazione con un protagonista e un antagonista; non vuol dire nascondersi dietro un’allarmante mancanza di idee e di creatività; non vuol dire solo “storytelling” in senso lato, ma significa solo ed esclusivamente raccontare agli altri, con passione e voglia di esprimersi, quello che scegli di dire.
Storia sta per personaggi da presentare e da rappresentare; storia sta per viaggio verso l’ignoto, sta per mettere in fila le immagini giuste con la musica giusta; storia sta per far credere qualcosa per poi svelare il contrario; storia sta per conflitto, per ostacolo, per imprevisto; storia sta per cogliere lo spirito del tempo e riconsegnarlo allo spettatore; storia è regia, è intervento dell’uomo e delle sue paure su ciò che accade e su ciò che l’apparenza non riesce a mostrare. Un autore ha questa enorme opportunità: intrattenere, informare, far riflettere, far ridere, sognare, commuovere, far capire, svelare, intristire, far conoscere, insomma svegliare animi intorpiditi. E’ un dono da preservare, un talento da coltivare, non bisogna abusarne, non se ne deve mai dimenticare.
Ho fatto molti programmi in tanti anni di lavoro, ho lavorato con tanta gente, ho fatto il runner, l’autista, il segretario di produzione, il redattore sfigato, l’acchiappaospiti, la sentinella nei reality, l’autore di prime, seconde e terze serate, dappertutto in Rai, a Mediaset, a La 7, a Sky, spesso mi sono divertito, qualche volta no; ho incontrato persone straordinarie e autentici figli di puttana. Ho conosciuto poliziotti, ladri, barboni, profughi, Direttori di rete illuminati e autentici passacarte, popstar osannate, comparse senza arte né parte, attori straordinari, comici che non fanno ridere e comici che come alzano il sopracciglio fanno schiattare dalle risate, autori senza idee e autori straordinari, talenti buttati nel fango e mezze calzette innalzate a “maitre a panser”; ho visto un tenente colonnello dei Carabinieri infiltrarsi in un gruppo di narcotrafficanti e una bonazza superpagata sclerare davanti ad una star della musica degli anni ’80 per un piatto sporco di sugo.
Tutte cose che fanno riflettere. In questo mestiere se non stai con i piedi per terra finisci che ci credi sul serio; il nome sui titoli di testa pensi sia la cosa più importante che c’è, ma non è così.
In tutto quello che fai devi sempre pensare che l’idea è tutto. E l’idea non viene fuori quando la cerchi. L’idea è la cultura che possiedi, l’allenamento che hai a saper guardare fuori dalla finestra quando cerchi qualcosa che non sia il tuo motorino parcheggiato. L’idea non è un format, così come format non è necessariamente la costruzione di un percorso che sviluppi un’idea. Troppo spesso siamo oppressi dal format, da quella cosa che ti fanno vedere e che deve essere uguale da Roma a Timbuctù, da Los Angeles a Pechino.
Si lo so, i format sono una garanzia, sono ciò su cui si basa l’industria dell’audiovisivo, sono i proiettili che caricano le armi delle multinazionali dei contenuti, quelle potenze che animano le giornate dei telespettatori. E’ il mercato che va così e così è giusto che sia, ti dicono. Forse è vero, ma le regole esistono per essere aggirate. Senza follia, senza creatività, non c’è spettacolo, senza ribellione non c’è intrattenimento, senza diffidenza non c’è esplorazione, senza fame non c’è satira, senza autore non c’è racconto. E allora viva i format, ma non lasciamo che per esempio si imponga, a tutte le latitudini e a tutte le culture, una roba in cui due si sposano un’ora dopo che si sono conosciuti, facendolo passare per un esperimento scientifico.
E’ solo un esempio tra tanti, anche se si dice ovviamente che è il mercato che impone certe direzioni editoriali. Certo, pure questa è una storia, ma per me è una storia troppo storta, parecchio inverosimile. E allora, è la domanda che genera l’offerta o viceversa? E ancora. C’è qualcuno che può affermare con certezza che vediamo quello che vogliamo o che vediamo quello che ci offrono di vedere?
Una volta ho fatto una pazzia, un piccolo esperimento di sabotaggio culturale e c’ero quasi riuscito. Avevo inventato un programma, a volte succede. Raramente, ma succede. Per “venderlo”, per farlo approvare e forse fare, mi ero inventato, carte alla mano e finta rassegna stampa, che i rating di questo programma erano stati alti in tutte le nazioni in cui era stato prodotto: in Spagna, in Brasile, in Nuova Zelanda, in Australia, a Taiwan. Mi ero anche inventato degli illustri conduttori per ogni nazione.
In Nuova Zelanda lo ha condotto questo, in Brasile quest’altro, eccetera. Avevo anche realizzato un promo di cinque minuti in olandese con i sottotitoli in inglese, prendendo immagini di repertorio spacciate per vere. Era un programma andato bene, di successo, ma non era vero niente. Con tutto il materiale finto sono andato a proporlo a un Direttore di rete. C’è cascato, così come un suo vice. Così come un capostruttura, così come un produttore esecutivo. Erano molto interessati.
Ma poi un giovane nerd, responsabile dei format della rete mi ha beccato, ha svelato la truffa e non se ne è fatto più niente. Peccato. Pochi anni dopo, però, il mio progetto sono riuscito a realizzarlo da un’altra parte, in un’altra rete. Il titolo non a caso si chiamava “Italian Job”. E non è andato male, in Italia. E’ stato solo un gioco, una banale vendetta contro chi ha paura che la cosa non funzioni perché è un prodotto che non è stato mai realizzato. Se ci cascavano in pieno però sarebbe stato fantastico. Secondo me qualcuno prima o poi ci riesce.
I contenuti di un prodotto producono valore. E questo valore arriva alla gente come un’ondata di informazioni ed emozioni. Siamo in grado di gestire tutto questo? Come spettatori siamo attenti a non farci schiacciare dalle nostre storie? Non essendo più abituati al silenzio non le cerchiamo più. Anzi. Riempiamo il nostro tempo per non farci trovare impreparati alla vita. Ma è uno sbaglio. Spegnere il telecomando spesso fa bene alla mente. Anche a chi vive di questo. Perché solo se qualcuno mi dice: “questa cosa non mi piace”, posso capire che forse sto sbagliando. E’ un fatto di responsabilità. Che credo un autore della televisione debba avere.
Solo l’autore ha un foglio bianco davanti a sé cui dare forma e contenuto: non il regista, non il produttore, non l’editore. Ma troppo spesso ce ne dimentichiamo. Di idee ce ne sarà sempre bisogno infatti, ma non tutti pensano che ci vogliano per forza degli autori capaci di racconti, di suggestioni, di intuito. Magari serve qualcuno più pratico e meno idealista. Ma in fondo quella dell’autore è un’esperienza umana oltre che professionale; proprio per questo è piena di imprevisti e di ostacoli da superare. E’ come vivere sempre sull’orlo del precipizio. In fondo però questa precarietà a me non dispiace.
Giovanni Filippetto
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