Catturandi – Nel nome del padre, Massimo Ghini a Blogo: “Non è solo mafia e impegno sociale, ma un grande romanzo di qualità”
Massimo Ghini, protagonista della nuova fiction Catturandi in onda da questa sera su Raiuno, racconta a Blogo questa nuova avventura professionale.
Parte oggi la nuova fiction di Raiuno Catturandi – Nel nome del padre, che racconta le vicende di un gruppo d’èlite della Polizia di Palermo alla ricerca dei più pericolosi latitanti della criminalità organizzata. A interpretare questa ficiton, che racconta da un nuovo punto di vista la lotta tra Stato e Mafia, troviamo un nutrito cast di attori di fama, tra i quali spicca il nome di Massimo Ghini, protagonista accanto ad Anita Caprioli di un racconto che – come ci tiene a sottolineare l’attore – “è soprattutto un grande romanzo, non solo una fiction di impegno sociale”. È infatti Ghini a raccontare a Blogo qualcosa in più su questo progetto televisivo, che arriva su Raiuno a due anni di distanza dalla fine delle riprese perché “bisognava aspettare il momento giusto, per mandare in onda qualcosa di diverso e nuovo senza rischiare troppo”. Ma, come scoprirete, il discorso diventa poi più ampio, abbracciando anche “le polemiche sterili sulla televisione, fatte solo per parlare”, o la difficoltà che ancora c’è, nel nostro Paese ma non negli altri, di considerare l’artista nella sua totalità senza classificazioni e distinzioni.
Iniziamo subito raccontando qualcosa del suo personaggio in Catturandi…
Intanto, prima di parlare del mio personaggio, ci tengo a precisare che la Catturandi non è una serie in cui ogni puntata si conclude, dove arrestiamo qualcuno in ogni episodio. La Catturandi, infatti, finisce alla sesta puntata, quindi bisogna seguirle tutte per arrivare alla conclusione, è un romanzo e come tale si sviluppa. Il mio personaggio, Valerio Vento, è il capo di questa squadra della Catturandi, con un percorso – così come quello degli altri – molto particolare e complesso. È un poliziotto che arriva a comandare la squadra dopo un percorso duro. Prima, infatti, era un commissario a Genova durante il G8, e arriva quindi con una storia difficile alle spalle, in cui si è preso anche le sue responsabilità. Al suo arrivo ci sarà una sorta di monologo, di confessione, in cui Valerio spiega a Palma Toscano (Anita Caprioli) quello che gli è successo, da uomo che si è trovato alla Diaz e ha passato ciò che ha passato. Quanto accaduto quel giorno gli ha rovinato la vita pubblica, ma anche privata. Dopo aver affrontato molti problemi, tra cui la disciplinare, e non essere avanzato di grado, si ritrova ad arrivare a Palermo con questa seconda chance. Ma non voglio anticipare molto. Posso però dire che, quando ho letto la sceneggiatura e ho trovato questo personaggio così complesso, ne sono rimasto affascinato, un po’ non me lo aspettavo, soprattutto pensando a Raiuno e ha un certo standard di racconto. Ma questo vale per me come per gli altri attori che hanno preso parte al progetto. I personaggi, infatti, hanno una tale ambiguità che sino alla fine fatichi a capire davvero tutta la narrazione, fatichi a capire dove ti porterà. E questa è forse la cosa più bella. Aggiungiamo anche che, accanto alla storia della ricerca di questo latitante, c’è la parte più fiction, più romanzata, che è quella delle relazioni interne, del background delle loro storie. In questa situazione, la storia pubblica e la storia privata si confondono.
Come si è calato nel personaggio e si è ispirato a qualcuno?
Il mio personaggio è ispirato al capo della Catturandi, che allora era Renato Cortese – oggi capo della Squadra mobile romana – e che arrivò alla cattura di Provenzano. Ho avuto la fortuna di conoscerlo prima di iniziare a girare e in quella occasione mi ha raccontato una storia meravigliosa: Cortese è entrato nel casolare dove hanno arrestato Provenzano col sigaro tra le dita, mentre io me lo immaginavo con le pistole in mano. Così non è stato. Per quanto riguarda il versante del poliziotto, quindi, a lui. Invece, per quanto riguarda il versante privato – e la parte che più mi piaceva di questo personaggio – non mi sono rifatto a qualcuno in particolare, ma ho pensato a vivere il percorso tormentato di un uomo, che ha avuto un passato disperato ma che si è aggrappato con forza a questa nuova storia per andare avanti.
Tra l’altro non è la prima volta che veste i panni del poliziotto. Mi viene ad esempio in mente “La omicidi”…
Sì, e a proposito de La omicidi ci tengo a dire che all’epoca fu un buon successo, anche se non un successo trascendentale. Io avrei anche continuato a farla, ma si decise di non dare un seguito a quel progetto. Peccato, perché a me piaceva moltissimo quella serie, tra l’altro diretta da un grande regista, Riccardo Milani. La cosa che mi fa più piacere è che da dieci anni è una delle fiction più replicate da Rai3. E allora mi chiedo, perché anziché replicarla non la rifanno? Non lo so perché, ma quando mi piace molto qualcosa che ha anche successo, alla fine me la tolgono (ride, ndr). Questo mio nuovo personaggio, Valerio Vento, è un po’ un mio omaggio personale al commissario Lazzaro de La omicidi, che avrei voluto continuare a fare.
Quale crede sia il punto di forza della fiction, a parte il cast di alto livello?
La diversità di narrazione; il non voler raccontare la solita mafia nella solita identica maniera; Palermo che è dipinta con un amore che serve ad esaltare una città bellissima e spesso castigata. C’è una fotografia straordinaria in questa fiction, che descrive con gusto questa Sicilia meravigliosa che non può essere solo mortificata. E la passione che ci hanno messo tutti i personaggi, tutti i miei colleghi. Tutti, infatti, aspettavamo con ansia questa fiction, eravamo anche un po’ turbati per il fatto che, dopo due anni dalle riprese, ancora non fosse stata mandata in onda…
Proprio questo le volevo chiedere: la fiction è stata girata ben due anni fa. Conosce i motivi di questo ritardo nella messa in onda?
Ti dico quello che penso, e come al solito poi pagherò le mie pene (ride, ndr). È perché c’è qualcosa di diverso e di nuovo in questo prodotto e, come sempre accade per il nuovo, c’è sempre un po’ di timore nel rischiare. Si doveva uscire subito, poi si è aspettato il momento più adatto. Come tutte le cose, però, credo che abbia trovato il momento giusto, che abbia trovato la sua collocazione, anche perché c’è stato un momento in cui nella rete pubblica e privata si sono accavallate una serie di cose che non hanno funzionato più di tanto.
Crede che il ritardo possa essere legato al fatto che ogni tanto torna in auge la solita sterile polemica per cui le fiction non dovrebbero occuparsi di mafia e criminalità organizzata? Come la pensa a tale proposito?
Mi pare che le cose che hanno avuto successo negli ultimi anni, però, siano quelle. Parliamo di Gomorra, di Suburra, e così via, che sono anche prodotti interessanti rispetto a una certa ripetitività televisiva. Per quanto riguarda la Catturandi – e senza polemiche – in più c’è il fatto che si racconta e si esalta l’attività delle forze dell’ordine, e quindi della parte ‘buona’. E tra l’altro ci rifacciamo a una storia vera, a un libro che riporta delle situazioni reali. Credo ci sia bisogno anche di questo. Alla fine io penso che si tratti sempre di polemiche sterili, fatte solo perché fanno parlare. Il punto è un altro, secondo me: la lavagna si divide sempre in cose fatte bene e cose fatte male. E questa è la cosa importante. Perché capita spesso di cambiare canale e vedere fiction che si assomigliano, ma anche lì ci sono quelle fatte bene e quelle che sono solo una brutta copia.
Allora, a questo proposito, cosa differenzia la Catturandi dalle altre fiction che si sono occupate e si occupano di mafia? Perché il telespettatore dovrebbe seguirla?
Semplicemente perché non è concentrata solo sul ragionamento di mafia tout court. È una storia di personaggi che ha come sfondo quella situazione lì. Rispetto al filo conduttore della trama – che ha a che fare con la mafia – c’è altro e di più. Non si parla della mafia con coppola e lupara, c’è tutto un ragionamento sull’eolico, sugli uomini che arrivano anche dal Nord, è tutto più ‘moderno’. La verità è che il racconto interno non è mafioso. Quel ‘Nel nome del padre’ ha un significato importante nella storia, e riguarda la parte più romanzata. Non c’è infatti solo la denuncia sociale in questa fiction, è più ‘romanzo’, e non a caso a dirigerla è stato chiamato Fabrizio Costa. Fabrizio è un grande regista di romanzi, non è uno specialista dell’action, è un grande narratore e come tale è stato considerato qui. E questo ovviamente fa la differenza. Dopo aver visto la prima puntata ti posso dire che dentro c’è una qualità che vedo mancare in televisione da un po’, ma semplicemente perché magari si affrontano altri argomenti dove c’è meno spazio anche alla descrizione estetica. Nella Catturandi c’è un respiro nella narrazione, nella descrizione – che fa parte del prodotto e che difficilmente oggi si ritrova in un prodotto televisivo. Infine, c’è un cast che non sempre si riesce a mettere insieme: ciascuno di noi può essere protagonista di una fiction.
Temete la prova degli ascolti o siete più interessati al fatto che sia apprezzata la qualità del prodotto?
Non si può ovviamente prescindere dagli ascolti, perché ormai siamo diventati schiavi di questo. E quindi è chiaro che la prova degli ascolti la dobbiamo temere. Ma spero che tutto quello che abbiamo fatto e costruito tutti quanti noi abbia un minimo di sostegno da parte di un pubblico che ci conosce per ciò che facciamo. Comunque, noi facciamo questa offerta, siamo tutti dei primi attori con una storia consolidata e se ci siamo messi insieme un motivo ci sarà.
Ci sarà una seconda stagione di Matrimoni e altre follie? (di cui è stato protagonista, ndr)
Questo non lo. È un momento di grande confusione per tutto. Quello che posso dire è che, nonostante siamo andati in onda d’estate, abbiamo avuto un buon riscontro di pubblico e ancora oggi c’è chi mi ferma per strada, mi fa i complimenti e mi dice di aver visto tutte le puntate.
Attore, regista, conduttore, concorrente di talent. In quali panni si sente più a suo agio Massimo Ghini?
Questa è una domanda che ogni tanto mi fanno e io amo rispondere che, se avessi fatto le Olimpiadi, mi sarebbe piaciuto fare il decathlon (ride, ndr). Dico questo perché la grande battaglia della mia vita è sempre stata quella di convincere tutti di essere in grado di poterlo fare. Ho fatto dal grande cinema al grande teatro, i film impegnati e i cinepanettoni, il teatro di grande intrattenimento con il Sistina, la televisione, come hai ricordato tu. La verità è che sono uno curioso, come lo sono stati i miei grandi maestri del passato: l’Italia è un paese senza memoria, ma ricordiamoci che – tanto per citarne alcuni – Tognazzi seguiva il giro d’Italia come inviato, Gassman faceva il mattatore in televisione. Quindi il fatto di voler fare tutto oggi sembra una sorpresa, ma la sorpresa nasce sempre come ignoranza, come non conoscenza del passato. Io sono uno con tanti interessi, e capisco che ad alcuni possa dare fastidio, perché quello che si vuole in Italia è la specializzazione. Se tu sei specializzato, sei controllabile. Io invece mi sono rovinato la vita perché non mi sono mai specializzato e sembra che ogni volta mi debba giustificare per questo, quando negli altri Paesi tutto questo è normale. Poi siccome io sono un artista – e non un impiegato dello Stato – come tale non posso avere dei paletti, devo realizzare la mia natura creativa. E ci provo sempre.
Su Tvblog pochi giorni fa abbiamo ospitato un’intervista a sua figlia Camilla relativa alla sua nuova avventura a Forum. E lei racconta che la cosa che temeva di più, in vista di questa partecipazione, era proprio il suo giudizio. È così difficile essere figli d’arte? O è più difficile per voi padri?
È sicuramente più difficile per i figli. Intanto vorrei precisare che io mi emoziono e mi emozionerò ogni volta che qualcuno dei miei figli farà qualcosa, e ne ho quattro. E credo sia normale. Mi trovo molto vicino alle problematiche di Camilla perché le ho prima vissute per le mie amicizie, da Alessandro Gassman a Gianmarco Tognazzi – quando erano ragazzi e me le raccontavano – e ora con i miei figli. Quello che posso dire è che, a differenza di quanto possa pensare la gente maligna e maleducata, la vita di un figlio d’arte è molto difficile già di per sé, perché è chiaro che chi lo ha preceduto ha avuto una sua dimensione. E questo li carica di una responsabilità enorme. In più in questo momento storico c’è una depressione generale che va dalla politica a tutto il resto, e quindi si crea questa idea che i figli d’arte siano dei raccomandati d’oro e qualsiasi cosa facciano ci siano i genitori dietro. La verità è che se avranno talento andranno avanti, altrimenti no. Io – e mi si può anche non credere – non ho fatto nulla per mia figlia. Camilla è stata chiamata e ha sostenuto un provino, è stata scelta e ha iniziato questo nuovo percorso. Tra l’altro lei non vuole fare l’attrice, quindi la polemica non la vedo.